Devo confessare che sono stato in grosso dubbio su quale nazionale del passato scegliere per questa puntata della rubrica. Avevo due candidate, tenendo in mente che fino alla fine della stagione vorrei andare per ordine cronologico, dagli anni ’70, quando ho cominciato a fare il telecronista, in poi. Sarebbe stato molto facile scrivere della Spagna (sull’Italia ne sapete sicuramente voi più di me), quella che sfruttò l’organizzazione degli Europei nel ’73 approdando all’argento, e in quell’occasione riuscì a fare un ottimo passaggio di consegne fra la vecchia generazione degli Emiliano e dei Buscatò e quella nuova che, imperniata sulla naturalizzazione di Luyk e Brabender, lanciò poi tantissimi grandi giocatori, il mio idolo assoluto Juan Antonio Corbalan in primis, e poi i vari Santillana, Rullan, Cabrera e tanti altri, fondando una scuola che negli anni a venire avrebbe dato l’impronta a tutto il basket europeo. Però parlare due volte della Spagna, visto che è impossibile non dilungarsi su quella del primo decennio di questo secolo con l’indimenticabile finale olimpica di Pechino, cosa che sarà fatta a tempo debito, mi sembrava troppo, per cui ho cominciato a cercare qualcosa d’altro.
MI È VENUTO IN SOCCORSO un pensiero che mi era subito venuto in mente con un – non lo nego – notevole moto di fastidio: prima degli ultimi Europei sul Primorski Dnevnik, il quotidiano della minoranza slovena in Italia, per la penna di un suo peraltro bravissimo giovane cronista che aveva (e ha) solamente la colpa (cestistica) di essere molto giovane, lessi una presentazione dell’evento nel quale parlava della Repubblica Ceca come di una nazione che si stava affacciando ai vertici, e che grazie a due giocatori quali Satoransky e Vesely poteva dire la sua. La mente mi tornò immediatamente ai miei anni di adolescente, quando guardavo il basket in tv a prescindere, senza se e senza ma, imbevendomi di ogni particolare e annotandomi mentalmente ogni giocatore che vedevo. E mi ricordo che, a parte il CSKA, le massime avversarie dell’allora dominante in Italia Simmenthal in Coppa Campioni erano lo Slavia Praga e lo Spartak Brno. Due squadre, se la geografia non è un’opinione, ceche. Sono poi andato a guardare il ruolino di marcia della Cecoslovacchia negli annali degli Europei, tanto per avere una conferma della mia sensazione che arrivava da un lontano passato. E ho visto: primi europei nel 1937, Cecoslovacchia bronzo, poi prima edizione del dopoguerra nel ’46, senza tutte le nazioni dell’est europeo, Cecoslovacchia Campione d’Europa (!) davanti all’Italia, nel ’47 argento dietro all’URSS, nel ’51 argento sempre dietro all’URSS, nel ’53 quarta, nel ’55 argento dietro all’Ungheria che giocava in casa, ma davanti all’URSS, nel ’57 bronzo dietro all’URSS e alla Bulgaria che giocava in casa, nel ’59 argento dietro all’URSS, poi un periodo di risultati inferiori, ma ancora un argento sempre dietro all’URSS nel ’67 e un bronzo a Napoli nel ’69 dietro all’URSS e all’emergente Jugoslavia. Con ancora l’ultimo sussulto agli Europei tedeschi dell’85, quando per tutta una serie di risultati fortunosi e di calendario favorevole la Cecoslovacchia arrivò al suo ennesimo argento. Scusate questa sfilza di dati che ognuno ovviamente può controllare facilmente, ma che reputavo giusto elencare, anche perché secondo me, soprattutto oggigiorno, pochissimi o nessuno, soprattutto tra i giovani, va a guardare cosa è successo nel passato, quando si sa che solamente conoscendo il passato si può capire il presente e intuire il futuro, e questo in ogni campo umano.
DIRE DUNQUE CHE la Repubblica Ceca è una realtà emergente è un clamoroso falso storico. Semmai è parzialmente ri-emergente rispetto a incredibili fasti del passato, ragion per cui c’è solo da chiedersi dove fosse stata tutto questo tempo, e come mai possa aver raggiunto livelli tanto bassi rispetto a una scuola a lungo all’avanguardia in campo europeo. Forse solo i più anziani (e per fortuna io, almeno per ora, non sono ancora fra loro) si ricorderanno di quello che fu forse, e a detta di molti, il miglior giocatore europeo degli anni 50, Jirži Baumruk, per cui sono costretto a cominciare la mia galleria dei grandi giocatori cecoslovacchi con quelli che conosco per averli visti di persona. A questo punto scusatemi una piccola parentesi tecnica. Avete visto la grafia che ho usato per il nome Giorgio nella lingua boema (non ceca, perché altrimenti si incavolano i moravi) che in realtà andrebbe scritto Jiri, con sulla “r” il segnetto che compare anche sulla “c” del mio cognome, che in questo caso viene letta, appunto, “rzh” o nella grafia slava “rž”, lettera che non ho sulla mia tastiera. A proposito: in tutte le lingue slave (e germaniche) la “j” viene letta sempre senza eccezioni come l’inglese “y”, cioè come una “i” consonantica, per cui se qualche telecronista d’ora in poi in mia presenza o in tv dirà Zhiri invece di I-irzhi (per non parlare dei vari Dezhan invece di Deyan che mi fanno venire sempre l’itterizia) gli sparo all’istante, perché persone tanto ignoranti non hanno diritto di mettere bocca davanti a un microfono.
I PRIMI NOMI CHE vengono in mente sono sicuramente quelli che fecero grande lo Slavia Praga sul finire degli anni ’60, il classico asse play-centro, che rispondono ai nomi di Jirži Zedniek e di Jirži Zidek: evidentemente in Cecoslovacchia, se volevi essere bravo, dovevi chiamarti Giorgio. Giocatori che, più penso a loro, e più mi sforzo di ricordare come giocavano, più mi rendo conto di quanto fossero moderni per quell’epoca. Zedniek era il vero leader, tuttofare, tiratore e passatore, ma soprattutto vero leader della squadra, mentre Zidek, con la sua mano morbida, i suoi sontuosi movimenti in attacco, gancio compreso, era nelle sue migliori giornate praticamente immarcabile, visto che era anche un giocatore che capiva perfettamente il basket. Qualcuno si ricorderà del figlio, suo omonimo, che se non sbaglio giocò anche qualche partita nell’NBA. Ebbene, rispetto al padre era una brutta copia molto sbiadita. Lo Slavia aveva a casa sua un grosso avversario, lo Spartak di Brno, squadra che era imperniata sui fratelli Zdenjek (anche qui: la seconda “e” va scritta col solito segnetto, come per Nedvjed, e si legge, appunto, “je” o, se non ci siete ancora arrivati, “ye”) e poi Jan Bobrovsky. Nel club giocarono per molto tempo assieme, formandone le fortune, ma in nazionale si fece luce prima il più anziano Zdenjek e poi il più giovane Jan che ebbi modo di vedere proprio in extremis agli Europei del ’73, alla sua ultima stagione in nazionale, quando commentai la semifinale vinta largamente dalla Jugoslavia sulla Cecoslovacchia, Jugoslavia che poi andò a vincere l’oro, mentre i cecoslovacchi furono sconfitti nella finalina per il bronzo dai sovietici. Ambedue erano giocatori molto tosti, fisicamente robustissimi, non proprio belli da vedersi, ma estremamente efficaci e produttivi, erano insomma un po’ nel solco dei giocatori forzuti e comunque terribilmente efficaci che avevano nel mitico Radivoje Korać il loro capostipite.
PROPRIO IN QUELLA PARTITA vidi fra l’altro per la prima volta due altri giocatori che stavano appena emergendo e che avrebbero avuto il loro importante impatto sul basket europeo. Il primo era un’ala che aveva esordito in nazionale giovanissimo non ancora ventenne quattro anni prima, Jirži (e dai, un altro!) Pospišil, giocatore totalmente sui generis, che non poteva essere annoverato in nessun tipo di categoria. A parte che, se in giornata, era capace di imbucare tiri impossibili, ma soprattutto del tutto pazzi e fuori luogo e dunque inattesi, ogni azione che intraprendeva era assolutamente fuori da ogni canone prevedibile, ma normalmente, una volta che veniva messa in opera, aveva un suo senso. Era un giocatore di quelli che vai a vedere sempre con enorme piacere, perché sai che ti sorprenderà sempre, ma che, se sei coach, appena lo vedi in azione ti viene l’ulcera perforata. Era fra l’altro un personaggio incredibile, del quale mi raccontarono aneddoti su aneddoti anni dopo, quando giocò in una squadra ceca il campionato centroeuropeo dei veterani. Intanto in partita parlava da solo commentandosi le azioni che faceva, a volte anche prendendosi in giro, e poi fuori, nel famoso terzo tempo, era il faro assoluto di ogni comitiva. In quella partita contro la Jugoslavia (ho il tabellino personale davanti agli occhi) segnò 20 punti, due in meno del tramontante Zidek, mentre 14 ne fece una giovanissima guardia, di nome Kamil Brabenec, giocatore che ebbe una lunghissima carriera e che riuscì a essere decisivo per le sorti della sua squadra ancora 12 anni dopo nel già menzionato argento europeo in Germania. Brabenec era un giocatore che mi piaceva tantissimo, in quanto era la classica guardia senza fronzoli come la sogno io, giocatore che tirava a ragion veduta, che aveva grandi doti fisiche che sfruttava per entrate a canestro comunque sempre logiche e ben prese (insomma l’esatto opposto delle attuali percussioni alla sperindio, tipo entro, vediamo cosa succede, se mi schianto pazienza tanto faccio la scena madre per impietosire gli arbitri). Era insomma un giocatore che portava punti alla squadra e non a se stesso.
SI PARLA DELLA CECOSLOVACCHIA, divisasi poi in Repubblica ceca e Slovacchia. Appunto, e gli slovacchi? Come si è visto dopo la divisione, gli slovacchi, più ancora dei cechi appassionati di due soli sport di squadra, quelli che sono per loro gli unici che esistano, e cioè calcio e hockey su ghiaccio, nel basket sono sempre stati di rincalzo, preferendogli addirittura la pallamano. L’unico giocatore importante che hanno portato alla ribalta è stato un lungagnone magro dai capelli lunghi apparentemente disarticolato che però, miracolosamente, aveva una sua coordinazione del tutto peculiare per cui, anche se sembrava sempre sul punto di annodarsi con gli arti, alla fine riusciva in qualche modo a mandare la palla nel punto giusto, facendo anche molti canestri: Stanislav Kropilak.
Poi, stranamente, il loro basket si è involuto e anche se ogni tanto producevano qualche eccellente giocatore, tipo Jirži (e daje!) Welsh, la loro scuola si è inaridita per ragioni che mi sfuggono, ma che vorrei tanto conoscere. Con mio sommo raccapriccio i giocatori che produceva sembravano sempre più le brutte copie dei giocatori decerebrati di scuola sovietica, automi telecomandati senza un briciolo di fantasia. A metà degli anni ’80 la loro coppia di centri era formata da Petr e Skala, che malgrado i richiami evangelici (Petr=Pietro e Skala=roccia), era un duo di perticoni sgraziati, lunghissimi sì, che però prima di mettersi in movimento ci mettevano un’eternità. Giocatori cioè che sembravano essere usciti dalla macchina del tempo in modo contrario a quanto accaduto con Sergej Belov, e cioè essere nati e cresciuti almeno 30 anni più tardi rispetto al tempo nel quale avrebbero dovuto nascere.
EPPURE LA REPUBBLICA CECA è la patria del soldato Švejk, la patria dell’umorismo e dell’intelligenza, della capacità di sopravvivere nel quotidiano, caratteristiche psicologiche perfette per il basket. È la patria di straordinari artisti, scrittori, musicisti, era il Nord industriale sviluppato dell’Impero Austroungarico. Per cui nei tempi passati vedere un popolo che è stato fra l’altro sempre il faro per tutti i popoli jugoslavi, che se volevano istruirsi dovevano per forza andare prima o poi a Praga, diventare almeno nel basket un popolo bue, di stampo sovietico, faceva veramente male al cuore. Per cui, se adesso stanno rinascendo, l’unica cosa che si può dire è perché non hanno cominciato prima.
Sergio Tavčar
L’articolo che hai letto è tratto dal mensile Superbasket # 26 del novembre 2016