Parlando delle grandi nazionali di basket con le quali ho avuto a che fare nella mia carriera non si può non parlare della Spagna, una delle vere e proprie corazzate del basket mondiale, nazionale che ha fatto soprattutto in questo ultimo decennio il bello e il cattivo tempo nel mondo, fenomeni (? – fisici di sicuro), USA a parte, chiaramente.
LA SPAGNA, intesa come potenza cestistica, è inoltre importante per me, perché continua a ricordarmi il tempo che è passato da quando ho cominciato a fare il mestiere di telecronista. Solamente quelli della mia età o più anziani si ricorderanno infatti dei tempi preistorici nei quali la Spagna era in effetti una realtà abbastanza insignificante. Non nelle sue espressioni di vertice, perché il Real Madrid, grazie al fatto di essere agganciato al potentissimo club di calcio, poteva permettersi di ingaggiare giocatori soprattutto americani di grande nome, gente che gli altri semi morti di fame in Europa potevano vedere solo in tv, e dunque poteva permettersi il lusso di vincere quattro Coppe Campioni in cinque anni (trivia question: chi interruppe a metà la striscia nel ’66? – la Simmenthal Milano… ah, bei tempi…) già negli anni ’60. Ma per il resto il movimento al di fuori di Madrid era abbastanza modesto, concentrato più o meno in una sola ristretta zona della Spagna, la Catalogna di Barcellona e a nord di essa, con fulcro di tutto il movimento la cittadina di Badalona, vero e proprio tempio del basket spagnolo.
MI SONO SEMPRE CHIESTO perché e come mai ci siano regioni in Europa per le quali il basket è una religione a prescindere, dal nordest spagnolo, Paesi baschi compresi, al sud-ovest francese con Pau e Orthez, all’Emilia, al nordovest lombardo, alla fascia adriatica e alla Venezia Giulia, per finire con quasi tutti i Balcani, regioni che da sempre sono state appassionate di basket e che continuano a esserlo ancora a tutt’oggi. Se c’è qualcuno che ha una risposta coerente a questa curiosità si faccia avanti. Forse che è collegata alla fantasia, alla creatività, alla voglia di divertirsi di quelle genti? Sicuramente è una visione molto di parte, ma qualche ragione dovrà pur esserci. Anche perché queste regioni confinano spesso con altre nelle quali il basket ha difficoltà ad attecchire, se non viene ignorato del tutto.
QUANDO COMINCIAI a fare il telecronista la Spagna era dunque una squadra fra le tante, a livello di Grecia e Bulgaria per intenderci. Il primo boom lo si ebbe nel ’73, quando la Spagna organizzò in casa gli Europei e poté finalmente approfittare del fatto di poter naturalizzare i due americani che si erano nel tempo accasati a Madrid ed erano diventati spagnoli a tutti gli effetti, l’ala tiratrice Wayne Brabender e il centro Cliff Luyk. Per il resto la squadra poteva schierare due bravi giovani lunghi scuola Juventud (o in catalano Joventot) di Badalona, Luis Miguel Santillana e Miguel Angel Estrada, mentre nel reparto piccoli assieme al tarchiato play del Real Cabrera c’era, alla sua ultima uscita internazionale, la leggenda vivente del basket catalano, il 33enne Francisco Buscatò, guardia di quelle che non esistono più, piccolino, velocissimo, con un gran tiro, fastidiosissimo, che con le sue azioni infiammava il pubblico e che in Italia aveva il suo clone in Tonino Zorzi. Era una squadra molto ben bilanciata, che sfruttò al meglio il fatto di giocare in casa per battere in semifinale di quattro punti un’URSS molto ringiovanita (sei giocatori in meno rispetto alla squadra che aveva vinto fra milioni di polemiche il titolo olimpico l’anno prima, anche se Sergej Belov c’era eccome), prima di inchinarsi in finale alla Jugoslavia di osi, Slavnic, Šolman, Pleaš e dei giovanissimi Dalipagic e Kianovic: 78-67 in una partita mai in bilico, parziali per la Jugoslavia 35-20 al 14°, 51-31 al 25°, 76-59 a tre minuti dalla fine.
A QUESTA SQUADRA, ritiratosi Buscatò, si aggiunsero ben presto due giocatori scuola Real: il play futuro primario cardiochirurgo Juan Antonio Corbalan, il ragazzo che mi aveva entusiasmato tre anni prima, quando lo avevo visto fare cose dal mio punto di vista meravigliose nella finalina per il terzo posto agli Europei cadetti di Gorizia, vera e propria epitome di quello che io intendo per play (se cioè potessi creare al computer un playmaker creerei lui), e il lungo piuttosto sgraziato e mingherlino Rafa Rullan, giocatore comunque dotato di un’ottima mano, cosa rara per i lunghi del tempo, osi a parte. Già l’anno dopo la Spagna, alla sua prima vera partecipazione ai Mondiali, fu quinta in Portorico, l’anno ancora dopo quarta agli Europei in Jugoslavia a pari punti con l’Italia, ma sconfitta nell’incontro diretto, insomma divenne un fattore importante nel panorama mondiale. Col declino fisico di Brabender e Luyk la sua competitività ebbe un momento di stasi, anche se cominciarono ad apparire giocatori nuovi di assoluto valore, come l’ala del Barcellona Juan San Epifanio, detto Epi, giocatore modernissimo con i suoi due metri, capace di fare di tutto, con un gran tiro, con l’unico problema che quando la partita entrava nel famoso periodo che i serbi caratterizzano con la locuzione «kad dupe gae žvae» (quando culo mastica mutande, come detto e reso famoso da Boša Tanjevic) tendeva leggermente a sparire di scena.
IL CAMBIO GENERAZIONALE e la squadra per gli anni ’80 si completarono quando apparve tutta una serie di fortissimi giocatori, segno che il basket aveva ormai definitivamente sfondato in Spagna, diventando a tutti gli effetti lo sport numero due dopo ovviamente il calcio. Dal Real Madrid arrivarono un lunghissimo pivot con le scarpe numero 60 (scherzando, ma neanche tanto, si diceva, o almeno io dicevo, che era l’unico giocatore che per le barche che aveva ai piedi tirava i tiri liberi da tre), bruttissimo da vedersi, ma molto utile, di nome Fernando Romay. Ma arrivò soprattutto un altro Fernando, di cognome Martin, ala forte di grandissimo fisico, di grande intelligenza, di gran tiro, insomma un giocatore fenomenale che purtroppo un tragico incidente d’auto levò troppo presto di scena. Con un dominicano e un argentino naturalizzati dal Barcellona, rispettivamente Candido Sibilio e Juan Domingo De La Cruz, con l’altro centro del Barcellona Andres Jimenez, con sempre Corbalan e Epi, questa squadra fu quarta ai Mondiali in Colombia, argento agli Europei successivi nella famosa partita di Nantes con l’apoteosi del bacio alla palla di Charlie Caglieris (ammazza, se era forte l’Italia per aver battuto una Spagna del genere!), e infine ci fu il picco assoluto l’anno dopo alle Olimpiadi di Los Angeles, quando la Spagna riuscì a battere in semifinale una Jugoslavia in convalescenza dopo la batosta di Limoges dell’anno prima, e affrontò in finale gli USA di Bobby Knight finendo travolta da un trentello. Di quella partita mi ricorderò sempre una palla vagante nella difesa americana salvata con un tuffo felino dal numero 9 che finì fra il pubblico, ma riuscì ugualmente a servire un compagno che aprì il contropiede, finito con un appoggio a canestro sempre del numero 9 che non si bene da dove era rispuntato. Il quale nel secondo tempo penetrò a difesa a zona schierata e schiacciò in faccia a Romay, pur essendo di due teste più basso. Fu allora che decisi che il numero 9, tale Jordan Michael del ’63 di North Carolina, come diligentemente annotato nei miei appunti per la partita, era uno forte da seguire con attenzione.
DA LÌ IN POI negli anni ’80 e per quasi tutti gli anni ’90 la Spagna, pur rimanendo terribilmente competitiva, vinse poco o niente, pur organizzando in casa i Mondiali dell’86 e pur potendo disputare in casa le Olimpiadi del ’92, a Barcellona. Unico successo il bronzo agli Europei italiani del ’91, i primi che non commentai per ragioni di forza maggiore, visto che nei giorni decisivi ero confinato in casa a Trieste con gli aerei dell’aviazione jugoslava che bombardavano il nostro trasmettitore sul Monte Nanos. Però intanto la Spagna era riuscita a creare una grandissima scuola, scoprendo e lanciando talenti provenienti quasi da ogni angolo del paese, anche se come sempre in questi casi poi deve intervenire la fortuna per mettere assieme il tutto. Così successe che alle leve del minibasket del Barcellona si presentassero due coetanei completamenti diversi nel tipo di gioco, uno piccolo, frenetico, incontenibile, tremendo in penetrazione e con un tiro che spaccava, di nome Juan Carlos Navarro, e un lunghissimo molto magro, ma estremamente coordinato, straordinariamente intelligente e dalla mano fatata di nome Pau Gasol. Questi due virgulti fecero tutta la trafila delle giovanili del Barcellona, arrivarono in nazionale giovanile dove trovarono il fratello di uno sgraziato lungo dell’Estudiantes, lui però molto più sveglio e capace, di nome Felipe Reyes, e un bravissimo play di Vitoria di nome Josè Manuel Calderon. Insieme ad altri bravi giovanotti che poi fecero tutti chi più chi meno carriera, portarono la Spagna juniores a vincere nel ’99 a Lisbona i Mondiali, battendo in finale di 7 punti gli Stati Uniti.
INSOMMA ERA TUTTO PRONTO per l’ultima, ma anche più grande Spagna di tutti i tempi. Nello stesso anno della vittoria mondiale degli juniores la Spagna fu argento europeo contro ancora una volta l’Italia, come tutti ben sanno, poi fu terza due anni dopo in Turchia e nuovamente finalista in Svezia nel 2003, battuta nettamente in finale dalla Lituania di Jasikievicius, Žukauskas, Macijauskas, Šiškeviius, Štombergas e chi più ne ha più ne metta, malgrado la notevole partita giocata dai due giovani virgulti del Barcellona, Navarro 18 e Gasol addirittura 38 malgrado il 10 su 19 ai liberi, suo sempiterno tallone d’Achille.
Dopo uno sfortunato Europeo del 2005 in Serbia, sconfitta di un punto contro la Germania di Nowitzki (27 punti) in semifinale, pur giocando senza Gasol, la Spagna salì finalmente sul tetto del mondo l’anno dopo in Giappone. A dire il vero fu molto fortunata, battendo in semifinale di un solo punto l’Argentina, al completo e ancora molto forte. Grazie soprattutto alla grandissima prestazione di uno dei giocatori più intelligenti che mai abbiano calcato i campi di basket in tutti i tempi, Jorge Garbajosa, 19 punti, praticamente tutti decisivi, e poi distruggendo in finale la Grecia che aveva fatto il miracolo del millennio, battendo in semifinale gli Stati Uniti e arrivando del tutto svuotata alla partita per il titolo.
MALGRADO LA TERRIBILE delusione dell’Europeo perso in casa contro la Russia all’ultimo tiro l’anno dopo, la Spagna si ripresentò in tutto il suo fulgore nel 2008 alle Olimpiadi di Pechino. Silurato il coach Pepu Hernandez per la vergogna dell’anno prima (eppure era stato “solo” campione del mondo…) la squadra fu affidata a uno degli allenatori che reputo fra i più scarsi che ci siano, e cioè Aito Garcia Reneses (specifico: grandissimo istruttore, ma zero come valutazione dei giocatori che impiega e sonno letargico in panchina). Nel girone eliminatorio forzò i suoi due pupilli della Juventud, Rudy Fernandez e il giovanissimo presunto fenomeno Ricky Rubio, col risultato che i veterani del gruppo di Lisbona (che erano invece nei loro anni migliori) si stancarono e fecero praticamente flanella, prendendo una batosta dagli americani e mai convincendo veramente. Malgrado ciò riuscirono ugualmente a approdare alla finale dopo una risicata vittoria sui lituani e affrontarono di nuovo gli USA di Bryant, James, Wade, Anthony, Paul, Bosh e Howard, solo che lo fecero con un approccio diverso. Calderon non poteva giocare per un infortunio, per cui fu molto curioso vederlo fare a tutti gli effetti il coach, con Aito che guardava la partita, fare i cambi previa consultazione con i compagni del nucleo storico, insomma la Spagna fece una partita “autogestita” che si rivelò fantastica. Si giocò in modo straordinario da ambo le parti, fu punto a punto fino agli ultimissimi minuti, e solo due magie di Kobe Bryant riuscirono a portare gli USA al successo. Per la cronaca questa partita conclude la mia trilogia delle migliori mai viste, per le altre due vedi finale europea ’95 Serbia-Lituania e finale mondiale 2002 Serbia-Argentina.
IL RESTO È OVVIAMENTE storia: la ripetizione della finale olimpica nel 2012 a Londra, finalmente i tre titoli europei nelle ultime quattro edizioni (è incredibile, ma l’Europeo vinto nel 2009 in Polonia è stato il primo vinto dalla Spagna nella sua storia!), il bronzo di Rio, il lancio di giocatori sempre e comunque straordinariamente competitivi come il Chacho Rodriguez o il fratellino di Pau Gasol, Marc. L’impressione è che, visto anche il livello stellare del suo campionato nazionale, di Spagna nel basket ne sentiremo parlare ancora per moltissimo tempo.
Sergio Tavčar
L’articolo che hai letto è tratto dal mensile Superbasket # 31 dell’aprile 2017