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      Arnold “Red” Auerbach di Fabio Anderle (2-segue)

      Fabio Anderle by Fabio Anderle
      11 Ottobre 2017
      in NBA, UOMINI
      0
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      In realtà il newyorchese era già tra i “papabili” alla successione a “Doggie” Julian, logorato da due stagioni con 47 vittorie ed 81 sconfitte. L’arrivo del fumantino coach non passò inosservato a Boston: il suo primo “atto ufficiale” fu quello di partecipare al draft 1950, quello nel quale i Celtics scelsero il primo nero della storia dell’NBA, Charles Cooper, e…non scelsero Bob Cousy, attirandosi le critiche della stampa locale. Auerbach nella conferenza stampa fu decisamente abrasivo: “Non so che farmene del sentimentalismo, e questo riguarda Cousy come chiunque altro. L’unica cosa che conta è l’abilità, e Cousy deve ancora provare di averne. Non mi interessa scegliere qualcuno solo perché è un bifolco del luogo”.
      Parte della stampa rimase favorevolmente colpita dai modi asciutti e schietti di “Red”, parte invece – capeggiata da Clif Keane del “Globe”, gli si rivoltò contro. Il grande Walter Brown però giocò sempre il ruolo di paciere tra allenatore e media, e lentamente ma inesorabilmente tra gli animi nobili dei due mise radici una sincera amicizia. Auerbach intanto iniziò la rivoluzione: vuotò gli “armadi” di tutti i giocatori che riteneva inadatti al suo basket, dal fisarmonicista Tony Lavelli, agli ex-Holy Cross Dermie O’Connell, Joe Mullaney e George Kaftan, all’ “Original Celtic” Art Spector, ultimo sopravvissuto della prima squadra ad aver indossato la tenuta bianco verde a fine 1946.
      Al loro posto, tramite trade (Bob Brannum), “dispersal draft” (“Bones” McKinney, Ed Macauley, Frank Kudelka e Bob Cousy) e draft (Charlie Share, Chuck Cooper, Bob Donham) arrivarono gli atleti che formarono l’intelaiatura dei Celtics futuri. Una squadra tosta (nella foto scattata al training camp del 1950 assieme al coach ci sono, da sinistra a destra, Cooper, Cousy e Donham) ma che allo stesso tempo si affidava ad una delle armi “storiche” di Bill Reinhart, il contropiede. Bob Brannum arrivò addirittura in uno scambio per Share che, sotto forma di “giocatore da decidere in futuro” avrebbe garantito a Boston una guardia da Hall of Fame, Bill Sharman. In un inizio di campionato abbastanza inusuale per un allenatore che vedeva nella preparazione atletica un perno del suo gioco, i Celtics persero le prime tre gare con “Red” in panchina: l’esordio a Fort Wayne il 1 novembre (84 a 107) e le altre due trasferte a Moline e Philadelphia. Poi però, a testimonianza della bontà del “neue kurs”, ecco sette vittorie consecutive, record di franchigia.
      Boston giocava un basket piacevole ed era una squadra tosta, anche se Auerbach non perdeva occasione per discutere con gli arbitri e per cercare di condizionare il loro giudizio. Quando i Celtics chiusero la stagione 1950-51 con 39 vittorie e 30 sconfitte il plauso fu unanime. Nei playoffs, però, cominciò la maledizione: anno dopo anno i biancoverdi avrebbero raggiunto la post-season con risultati lusinghieri per poi venir inesorabilmente fermati al primo o al secondo turno. Alla fine del campionato 1955-56 il record bostoniano del coach parlava chiaro: 241 vinte e 181 perse in regular season, 10 vinte e 17 perse nei playoffs.
      Auerbach non era stupido ed aveva capito che alla sua squadra mancava un centro dominante da “cavalcare” quando nei playoffs il gioco si faceva duro, ed aveva tentato diverse soluzioni acquisendo di volta in volta i “muscolari” Jim Loscutoff, Don Barksdale, Jack Nichols ed Arnie Risen. Ma solo un filiforme centro di San Francisco sarebbe riuscito a cambiare la situazione. Anche qui fu il vecchio coach Bill Reinhart a correre in aiuto del suo protetto, facendogli presente che quel giovinotto da McClymonds High sarebbe stato uno che spostava. “Red” si fidò ciecamente del suo mentore, convinse Walter Brown a gettare in quello scambio con St.Louis tutto quello che serviva a portare William Felton Russell a Boston: Ed Macauley, Cliff Hagan e…lo spettacolo delle Ice Capades, di cui il proprietario dei Celtics era uno dei “patron”.
      Auerbach intanto continuava a svolgere i ruoli di allenatore, general manager, addetto all’equipaggiamento, organizzatore delle trasferte, addetto al marketing a quant’altro. Nello stesso draft in cui i Celtics si accaparrarono Russell (nella foto il coach è immortalato assieme al futuro centro biancoverde nella cornice del Madison Square Garden, a poche ore dalla firma del contratto) arrivò anche Tom Heinsohn, e di colpo Boston diventò la squadra più forte di tutte. Si sarebbe aggiudicata nove dei dieci campionati seguenti, mentre “Red” continuava sagacemente a rafforzare l’organico, a sostituire gli atleti vecchi con nuove stelle. Arrivarono Frank Ramsey, Sam Jones, K.C. Jones, Tom Sanders, John Havlicek e fu la Dinastia, il vero ed unico momento in cui l’NBA fu totalmente schiacciata da un’unica squadra per 13 anni.
      Le teorie di Auerbach trovarono sempre maggior credito: i suoi sette schemi con le opzioni, le sue costanti battaglie verbali con gli arbitri e le multe comminategli dalla lega, la maestria nella sottile arte della motivazione dei giocatori. Incuriosiva anche l’aspetto folkloristico di un uomo che mangiava sempre cibo cinese e Coca Cola, faceva collezione di tagliacarte, guidava in maniera raccapricciante. Per distinguersi dagli altri allenatori che si fumavano una sigaretta, “Red”, non appena la partita era decisa in favore dei Celtics, cominciò ad estrarre dalla tasca interna della giacca un sigaro, ad accenderselo ed a fumarlo, e di lì a poco quella pratica divenne il simbolo della vittoria, tanto che ormai nella cultura sportiva (e non solo) il sigaro è sinonimo di successo.
      Non tutti vedevano di buon occhio quella manifestazione di superiorità, tanto che a molti giocatori ed allenatori NBA sarebbe piaciuto, solo una volta, ribaltare una partita persa e costringere Auerbach a spegnere il maledetto sigaro, ma solo i Lakers ci andarono vicino nell’ultima partita. Dopo otto titoli e 741 vittorie in regular season Auerbach infatti aveva annunciato che al termine del campionato seguente, stagione 1965-66, si sarebbe ritirato. In perfetto stile con il suo personaggio, quasi sfidò i suoi avversari ad un ultimo tentativo per metterlo a tappeto, ed ovviamente i Celtics reagirono con ulteriori 54 vittorie in regular season (che portarono il suo record a Boston sul 795-397, a cui va sommato il 90-58 nei playoffs) ed un titolo strappato ai Lakers in sette partite.
      Se qualcuno pensava che una volta lasciata la panchina il suo apporto ai Celtics sarebbe stato meno determinante, mal gliene incolse: fin dalla prima decisione, quella relativa al suo successore, “Red” fece capire che il “Pride” era bello saldo nelle sue mani, affidando l’incarico al primo coach afroamericano della storia dello sport professionistico statunitense. Chi avrebbe potuto allenare Bill Russell meglio di… Bill Russell? Ancora una volta, da maestro di psicologia, sfruttò il carisma del suo giocatore migliore ed allo stesso tempo lo responsabilizzò.
      Il risultato furono altri due titoli nel 1968 e nel 1969. Negli anni ’70, dopo il ritiro di Russell e Sam Jones, Auerbach si trovò a dover ricostruire praticamente dal nulla, e dopo aver affidato la panchina ad un altro dei suoi protetti, Tom Heinsohn, mise a segno una serie di colpi al draft (Jo Jo White e Dave Cowens) ed in sede di mercato (Paul Silas, Charlie Scott) e Boston vinse altri due titoli nel 1974 e nel 1976. Il ritiro di Cowens ed Havlicek segnò l’inizio di un’altra ricostruzione che “Red” affrontò scegliendo al draft del 1978 una giovane ala dell’Indiana di cui si diceva che fosse troppo lenta e non sapesse saltare.

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