«Se davvero vuoi fare il giornalista, fammi un fischio», con queste poche parole nel 1986 Aldo Giordani aveva avviato la mia ancora breve avventura tra le pagine di una rivista e i campi di basket. Due anni dopo, quando finalmente “avevo l’età”, lo raggiunsi a Milano per imparare il mestiere, lasciarmi sorprendere dal suo genio e dai suoi infernali ritmi di lavoro. Con il “vecchio zio”, come lo chiamavamo noi, nipotini dell’ultimissima generazione di giornalisti creati dal suo mito, non c’erano mezze misure: appena entravi nella cerchia dei fedeli venivi scaraventato in mare e di lì a poco avresti imparato a nuotare oppure saresti affogato. Nei tre anni vissuti lavorando fianco a fianco, il momento più divertente ed emozionante prendeva corpo la domenica sera quando andavamo a mangiare a Milano, sempre al solito posto, in via Fara, e il Jordan vuotava il suo bagaglio di ricordi e aneddoti riempiendo il nostro. Lo ascoltavamo a bocca aperta, come fanno i bambini quando gli raccontiamo le favole. Scherzando quando riviviamo quei momenti sogniamo di poter scrivere un libro con tutte le storie del Jordan.
Giordani non ha mai cominciato a lavorare dopo le 6 di mattina e quando i più mattinieri di noi arrivavano in redazione capivano che aveva già divorato la sua impressionante mazzetta di quotidiani. Aveva una capacità “mostruosa” di annusare le notizie più curiose senza perdere troppo tempo nella lettura: sfogliava un giornale e dopo tre minuti sapeva esattamente che cosa c’era o cosa non c’era. Aveva sofferto nell’abbandonare la rivista che aveva creato dal niente ma gioiva nel vedere che riuscivamo lo stesso a spedirla tra le sue mani. Qualche mese fa era stata organizzata una cena per rendergli ancora omaggio e non sapevamo che sarebbe stata l’ultima. Mi aveva confessato, nell’ultima conversazione, che «a far niente ci si abitua», ma non era riuscito a trattenersi e aveva voluto darmi ancora qualche consiglio, muovermi alcuni appunti. Credo si ritenesse responsabile di tutto quello che scrivevo. Se n’è andato di martedì, quasi a voler concedere alla sua rivista il tempo indispensabile per dirgli grazie. Ed è quello che faccio.
Claudio Limardi
L’articolo che hai letto è tratto dal settimanale Superbasket # 43 del novembre 1992