Ma guarda un po’, questa è la chiave che apriva l’anonima porta in alluminio della redazione di Superbasket in piazza Duca d’Aosta 8/b a Milano: è la riflessione che, un po’ sorpreso, ho fatto non molto tempo fa quando quel reperto storico è saltato fuori dal fondo di una scatola polverosa, mentre ero intento a riordinare ed eliminare (poco…) le mille cose che noi giornalisti, definiti accumulatori seriali dalle mogli, riusciamo a conservare. Cose dalle quali difficilmente riusciamo a separarci. Se la memoria non tradisce, l’ufficio del neonato settimanale di basket (non pallacanestro: basket era decisamente più moderno) si trovava al quarto piano di quel palazzone a due passi dalla Stazione Centrale, con le finestre che si affacciavano su una piazzetta interna: non un panorama formidabile, in realtà. Ma quando giravi quella chiave nella serratura entravi nel sancta santorum del basket. Poche scrivanie una vicina all’altra, telefoni sparsi qua e là, macchine da scrivere e sul fondo un ufficio più piccolo invaso da fogli di carta, pacchi di diapositive, foto in bianconero, riviste ovunque, libri. Quello era il regno del capo Aldo Giordani, Jordan per tutti: in quei locali infatti nasceva da tempo una parte importante del Guerin Sportivo.
Lì ci ero arrivato grazie a quel gentiluomo che era Marco Cassani, il caporubrica del basket a La Gazzetta dello Sport: rimasto disoccupato per la chiusura del quotidiano Il Giornale, pubblicato a Varese e dove avevo lavorato sin dal primo numero zero, ero andato a Cantù per la prima giornata del trofeo Lombardia, quello vero, non quello finto e triste che viene organizzato ai nostri giorni. Obbiettivo: parlare con i tanti colleghi dei grandi giornali che periodicamente venivano in pellegrinaggio a Varese per le partite decisive del campionato italiano, ma soprattutto per quelle di Coppa Europa che vedevano la Ignis prima e la MobilGirgi poi protagoniste della rassegna continentale (giusto per ricordarlo: dieci finali consecutive disputate con cinque trionfi). Il tutto per sondare il terreno, capire se c’era la possibilità di trovare un posto di lavoro, magari una collaborazione per ricominciare e restare nel giro. Cassani mi suggerì, con la prudenza che era nel suo dna, di parlare con Giordani. “Sta cercando di far partire una nuova rivista di basket, un settimanale, vai a parlarci: cerca collaboratori. Per un’assunzione non saprei dire…”. Lo ringraziai e mi fiondai a Cucciago: un breve e asciutto colloquio con Giordani, il suo stile, che mi suggerì di parlare con Bepi Tedesco, un collega di Venezia che stava mettendo assieme la rete di corrispondenti e collaboratori per la neonata rivista. E anche la forza lavoro per far uscire Superbasket.
Detto fatto. Con Tedesco fu intesa a prima vista tanto che poi ne nacque un’amicizia: né lui né io del resto eravamo pivelli alle prime armi. L’intesa fu raggiunta in fretta: ma la questione retribuzione dovevo poi discuterla direttamente con Giordani. Dunque altro colloquio, stavolta a Milano, con il cantore del basket italico che mi ricevette alla Rusconi in via Vitruvio, in un grande ufficio: la rivista infatti sarebbe stata pubblicata per conto della Rusconi Editori Associati e non direttamente dalla Rusconi. Utilizzando gli uffici esistenti del Guerino e riducendo al minimo i costi di gestione: il credo di quella avventura editoriale. Il compenso pattuito era di centomila lire lorde a numero, niente rimborsi spese per eventuali trasferte, cena pagata la domenica sera prima di andare in tipografia a chiudere la rivista. Giordani parlava poco e in modo rapido, ancor più velocemente e con un tono di voce più basso quando si trattava di soldi. Nell’ufficio della Rusconi mi presentò Donzelli, il grafico della rivista e la sua efficiente segretaria: struttura minima sempre per contenere i costi. “Fare un settimanale di basket – ripeteva il Jordan – è una scommessa. La vogliamo vincere. Chissà…”.
Così cominciò un’avventura esaltante con tanto lavoro da fare. La domenica tipo era questa: copertura a turno della partita dell’anticipo tv delle 15, se riguardava una delle squadre lombarde (Cantù, Varese, Milano, Vigevano o Brescia le piazze da visitare a turno), quindi rientro a rotta di collo in redazione per scrivere il pezzo e tuffarsi sui telefoni per ricevere i pezzi dai corrispondenti e prender nota delle statistiche: c’erano moduli prestampati che facilitavano il lavoro, poi i numeri andavano controllati per evitare errori. Perché la grande novità offerta da Superbasket era proprio quella di stampare e offrire fin dal martedì, giorno di uscita della rivista (lunedì pomeriggio a Milano), le statistiche complete di tutte le squadre di Serie A. Neppure la Lega Basket all’epoca era in grado di offrire un servizio del genere ai propri club (le statistiche venivano spedite per posta: internet ancora non c’era). Fu una rivoluzione che fece la fortuna della rivista assieme a cronache stringate e ricche di curiosità, a volte graffianti. Sempre coinvolgenti: il testo delle partite diviso a blocchi di facile lettura con titolini in neretto per attirare l’attenzione su un protagonista o un episodio.
Una volta raccolto freneticamente tutto il materiale, si mandava un bustone in tipografia tramite un fattorino: Jordan nel suo ufficio alla velocità della luce partoriva sulla macchina da scrivere l’editoriale che apriva il giornale e sintetizzava la giornata mentre a vegliare in redazione restava Pierluigi Valli, correttore a Il Giorno e che per Superbasket curava il campionato femminile: da solo, con tante telefonate da fare o ricevere. Sempre lunghissime. Era lui che la domenica chiudeva la redazione. L’atmosfera in quei momenti era caldissima fra telefonate, richieste di chiarimento ai corrispondenti o perentori solleciti fatti da Tedesco ai soliti ritardatari per avere finalmente il pezzo che mancava, macchine da scrivere che davano vita ad un concerto di frenetici ticchettii per sfornare le cartelle che una volte arrivate in fotocomposizione avrebbero riempito l’ultimo sedicesimo della rivista (in totale 64 pagine tutte-di-basket: una cosa mai vista prima). E in redazione alla domenica gracchiava sempre una radio sintonizzata su Tuttobasket, la trasmissione inventata nel 1978 per Radio 1 da Massimo De Luca: era fondamentale per gli ultimi aggiornamenti e anche per recuperare certe “dimenticanze” di qualche corrispondente locale che finiva per sorvolare su alcuni episodi di gioco o anche di ordine pubblico (contestazioni da parte del pubblico, scontri fra tifosi).
Per le 22:30-23 il miracolo settimanale si realizzava: a quel punto tutti via di corsa verso via Fara, alla Trattoria Toscana da Mico, il covo dei baskettofili nella zona delle Varesine dove Dido Guerrieri, Riccardo Sales, Dante Gurioli e tanti altri protagonisti della Pallacanestro Milano e del basket milanese amavano ritrovarsi. E dove avresti fatto notte fonda per chiacchierare con campioni del calibro di Chuck Jura o dove restavi affascinato dai discorsi di Guerrieri (pure fra i primissimi collaboratori di Superbasket). Con tanti protagonisti che aspettavano l’arrivo della ciurma di Giordani per scoprire le ultime novità, le chicche più gustose della domenica baskettara. Il tempo di un primo ed un secondo piatto e quando compariva Valli, sempre trafelato, si capiva che era il momento di partire verso via Negri, zona Borsa di Milano. Lì aveva sede Il Giornale fondato da Montanelli. Nella tipografia del quotidiano avveniva infatti la preparazione di Superbasket: in settimana si chiudevano il primo trentaduesimo e il primo sedicesimo, la domenica notte era il turno delle ultime sedici pagine dedicate interamente all’attualità della serie A con le due sulla serie B (curata da Roberto Caggia) e della femminile (seguita dal già citato Valli). Era l’ultima, fondamentale corsa contro il tempo: che però, naturalmente, doveva fare i conti con le esigenze del quotidiano. Se c’era la necessità di interventi sul giornale partiva la ribattuta (termine tecnico per indicare le modifiche da apportare al quotidiano dopo che la prima edizione era già in stampa) e Superbasket doveva segnare il passo per avviare e completare l’impaginazione delle ultime sedici pagine.
In un angolo della grande fotocomposizione Giordani rivedeva e controllava titoli e bozze delle varie pagine, suggeriva modifiche, noi della redazione verificavamo i testi, le statistiche e tutto quel che stava per essere pubblicato. Con il Jordan che non perdeva occasione per passarci uno dei suoi pungenti “pallini”, quelle brevi notizie con titolino in neretto che arricchivano il settimanale e che ne rivelavano il dna. La Federbasket ed i suoi dirigenti, presidente in primis, erano i bersagli preferiti delle graffianti parole del Jordan. Ma anche la Lega Basket o la Fiba pagavano dazio, come del resto a turno tutti i protagonisti di quell’era forse irripetibile per il basket italico che esprimeva dirigenti di grande livello oggi rimpianti con nostalgia. Perché i loro moderni eredi a confronto sono davvero ben poca cosa. Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe molto lontano.
Di “pallini” il giornale era zeppo: Giordani stimolava tutti a proporne di interessanti su questa o quella squadra: “Se un determinato argomento non ci sta nel testo dell’articolo – argomentava – estrapolatelo in una breve: arricchirà il giornale. Anche se messo in un’altra pagina”. E difatti quando la rivista era in edicola fra allenatori, dirigenti e giocatori o addetti ai lavori scattava la caccia al “pallino” che li riguardava. Temendone le conseguenze. E alcuni a volte arrivano addirittura a suggerirne… pro domo loro. La copertina era ovviamente oggetto di cure particolari con molti “strilli” per evidenziare i risultati a sorpresa e le prestazioni super di questo o quel giocatore. Con il povero Donzelli, il grafico, che pazientemente provvedeva ad effettuare rapidamente gli aggiornamenti richiesti. La prima copertina fu dedicata a Bob Morse, lo straordinario cannoniere di Varese per il quale Giordani aveva una venerazione anche se non l’avrebbe mai confessato.
Il lavoro della chiusura domenicale si concludeva a notte fonda, verso la 1:30 o le 2 o anche dopo, se necessario. Quando uscivi in via Negri spesso a causa dei nebbioni, che all’epoca erano cosa normale a Milano e in Lombardia, neppure riuscivi a vedere dove avevi parcheggiato la tua fida 500. Frettolosi saluti con i colleghi e poi tutti a casa, stanchi ma in cuor nostro felici per il lavoro fatto. Da martedì la rumba sarebbe ricominciata un po’ più tranquilla: c’erano da passare e impaginare gli articoli di Oscar Eleni, Marco Cassani, Guido Ercole, Andrea Girelli, Luca Argentieri le firme dei maggiori quotidiani nazionali ingaggiate da Giordani per la nuova rivista. Le foto da scegliere, i campionati esteri da sintetizzare in una pagina, la rubrica di tecnica e quella delle lettere, gli articoli che erano stati proposti dalla redazione e approvati e che andavano preparati per mercoledì massimo giovedì mattina. I titoli da fare: poi la pressione saliva e si tornava in fotocomposizione per chiudere la prima parte del settimanale. Rincorrendo le modifiche suggerite di volta in volta da Giordani: in questo un vulcano inesauribile, una fonte di ispirazione per chi ha avuto la ventura di poterci lavorare assieme.
In redazione ho visto arrivare tanti giovani appassionati che hanno saputo trasformare con successo e bravura la loro passione per il basket in professione, ne cito tre per tutti: Luca Chiabotti, presto diventato il braccio destro del Jordan a Superbasket prima di passare in Gazzetta dove è diventato il caporubrica del basket. Quindi Umberto Zappelloni, oggi uno dei vicedirettori della Rosea, quindi Guido Bagatta, da sempre imbenzinato di basket statunitense e che in televisione ha trovato la sua strada.
Per tutti Giordani ha avuto parole di incoraggiamento o di suggerimento. Anche se dispensate con il contagocce, era il suo stile. Le telecronache di basket che ha fatto per la Rai, riascoltate oggi, ci fanno apprezzare la sua profonda conoscenza di questo sport e la capacità di analisi: all’epoca, almeno agli inizi, non poteva sfruttare la spalla tecnica oggi irrinunciabile. E Jordan sapendo di rivolgersi ad un pubblico poco avvezzo alle strane regole del basket, in un Paese di calciofili, spesso aiutava il telespettatore raccontando il perché di quell’azione o di quel gesto. Credo che ai telecronisti moderni farebbe bene un ripasso di quelle telecronache in bianconero che ci arrivavano sul televisore un po’ sbiadite per la tecnologia dell’epoca: la sua capacità di sintesi e di racconto erano proverbiali. Così come le sue interviste brevi, rapide, alla Domenica Sportiva al personaggio del momento. E se non ci credete, andate a cercarle su YouTube e guardatele: resterete stupiti di come erano complementari alla trasmissione e fatte con bravura estrema.
Ma non posso dimenticare la sua voce emozionata, commossa, quando il 9 aprile 1970 da Sarajevo raccontò in diretta il primo successo della Ignis Varese in Coppa Europa contro l’apparentemente imbattibile Armata Rossa (79-74): era la gioia immensa di un grandissimo appassionato di basket, che poteva finalmente raccontare l’impresa di una squadra italiana. Momenti che, da varesino, mi hanno fatto dimenticare qualche cronaca un po’ partigiana (almeno per noi di Varese…) degli Ignis-Simmenthal che all’epoca decidevano il campionato italiano. Un suo difetto incorreggibile? Facile: al volante si sentiva come un pilota di Formula 1, doveva arrivare e poi ripartire il più in fretta possibile. E i limiti di velocità per lui semplicemente non esistevano. E se per caso c’era la nebbia era anche peggio: un’esperienza in queste condizioni era da incubo. L’ho fatta una volta e mi è bastata: il Jordan sosteneva che più forte andavi più rapidamente ne saresti uscito. Non mi ha mai convinto con questa sua bizzarra e pericolosa teoria.
A Superbasket ho lavorato dall’inizio fino alla primavera 1979: poi ho preso di nuovo la strada dei quotidiani complice l’editore della rivista che era sordo alle nostre richieste di inquadramento contrattuale. Ma ricordo con piacere quella scuola di giornalismo sul campo, accanto a Giordani e ai tanti bravi colleghi che con Superbasket lavoravano o collaboravano. Bei tempi, si dice spesso con nostalgia. Ma è vero, e non soltanto perché eravamo più giovani: quel basket, temo, non lo rivedremo più. Grazie Jordan.
Enrico Minazzi