Con quel che è successo, uno che distrattamente sentisse menzionare nella stessa frase le parole “Qyntel Woods” e “guai con la giustizia” farebbe una facilissima associazione di idee: oh no, ci è ricascato. Giusto?
Sbagliato. Perché la prigione non la rischiò il giocatore, un giorno di fine gennaio del 2002, ma l’autore di questo articolo.
Yalobusha. Certi nomi, apparentemente difficili, si ricordano anche a distanza di anni, se sono associati a momenti – come dire? – che ti restano addosso.
Yalobusha è il nome di una contea del Mississippi, situata più o meno nella parte centrale dello Stato, che si estende principalmente da nord a sud. Dista circa cinque ore d’auto da New Orleans, e questo è uno dei problemi, nel caso specifico. Era la settimana del Super Bowl, quello vinto poi dai New England Patriots, ed ero là come sempre, essendomi preso qualche giorno di ferie. Ma un po’ l’impossibilità di lavorare («non frega niente a nessuno» era la rituale risposta delle testate italiane a cui avevo proposto articoli sul tema), un po’ la solita voglia di esplorare mi avevano portato a disertare gli appuntamenti di metà settimana, noleggiare un’auto e dirigermi verso nord. In questi viaggi ho infatti sempre cercato di infilare il maggior numero possibile di appuntamenti, per sfruttarli al massimo
e accumulare conoscenze pratiche e ricordi. E allora già prima di partire dall’Italia avevo delineato un itinerario a mio avviso interessante: lunedì sera Tulane-Southern Mississippi di basket, martedì sera partenza, mercoledì sera un notevole Memphis-Louisville ovvero scontro in panchina tra John Calipari e Rick Pitino, giovedì sera una missione nella piccola e oscura Booneville, Mississippi, per vedere dal vivo questo ragazzo, Woods, di cui si parlava tanto sul web, e di cui non era però possibile scorgere ancora nulla in versione video. Andava visto, dunque.
COMUNQUE SIA, trascorsa la prima notte un’ora a nord di New Orleans, in una locanda gestita da quella che pareva essere la nonna di tutti i residenti del paesino, il mattino del mercoledì mi ero rimesso al volante, verso nord. Ed era stata dura. Panorama gradevole, con boscaglie sparse, qualche corso d’acqua, distese verdi di tabacco e la suggestione, generata da letture quali l’autobiografia di Spencer Haywood, cresciuto da queste parti, che quelle visioni placide nascondessero chissà quali retroscena, non tutti edificanti. Solo che Memphis era sempre troppo lontana. Ad un certo punto il traffico sull’autostrada 55 si diradò e io, senza accorgermene, ero rimasto tra le poche auto a correre: negli Stati Uniti capita spesso che il limite di velocità venga oltrepassato da decine di auto alla volta che marciano compatte su varie corsie, il che riduce i rischi di incidente e soprattutto rende tutti colpevoli e di conseguenza tutti innocenti, perché un’eventuale pattuglia della stradale dovrebbe fermare tutti. Il guaio è quando poco alla volta le altre auto prendono le uscite e ti lasciano quasi solo in mezzo a tir e camioncini. Sei molto più visibile, e ancora più se inconsciamente, stanco e annoiato, cerchi di spingere per arrivare prima. Ecco, a un certo punto nel senso di marcia opposto vedo un’auto della Polizia, istintivamente la seguo con lo sguardo nello specchietto retrovisore, vedo che fa inversione a U nel tratto erboso che separa le due carreggiate, mi si avvicina e accende le luci.
Ahia.
Accosto, e rimango immobile, come da prassi. Dall’auto scende un ragazzone (bianco) con la divisa beige e gli occhiali neri. Tiro giù il finestrino, mani sul volante.
«Buongiorno signore. Lei lo sa a che velocità stava andando?». Obiettivamente no. Andavo forte, di sicuro, ma ero nella medesima corsia da parecchi minuti, senza effettuare sorpassi, e lo sguardo al cruscotto non mi cadeva da un po’.
«91 miglia [145 km]».
Ahia.
«È sotto effetto di droghe, alcool, qualcosa?». Guardi agente, sono un nemico acerrimo di qualsiasi tipo di sostanza alterante, e non mi sono mai sognato di prendere nulla del genere, alcool compreso. Ho solo il piede pesante, o di piombo come dite qui, e non vedevo l’ora di arrivare.
«Mi dia la patente e non scenda dall’auto». Tornò sulla sua volante, e si mise ad armeggiare al computer portatile appoggiato al cruscotto. Tornò dopo 3-4 minuti, probabilmente, durati però mezz’ora. «Guardi, lei era 26 miglia oltre il limite di velocità. Fino alle 25 qui da noi si prende la multa. Dalle 26 in poi scattano arresto e carcere».
Deglutisco. Non sono spaventato ma quasi divertito, e mi immagino, come un flash, le risate dei colleghi di redazione alla mia telefonata: “non so quando torno, sono in una prigione del Mississippi”. Intanto l’agente continua. «Vedo però che lei è onesto. La strada era sgombra, lei non stava effettuando cambi di corsia e capisco che come straniero abbia abitudini diverse. Per questa volta gliela faccio passare liscia, ma tra un mese deve telefonare a questo numero – mi consegna un verbale con un cerchio a biro su una serie di cifre – e chiedere a quanto ammonti la sua multa. Buona giornata, e sia più prudente». Fiuuu. Ripartii, e ovviamente i restanti 140 chilometri li feci rispettando tenendo il limite MINIMO di velocità, un Fantozzi ingobbito al volante di una Bianchina in salsa americana a passo d’uomo. La multa fu poi di 80 dollari, comunicatami con voce squillante al telefono dalla segretaria di quello che risultò essere il giudice della contea di Yalobusha. E chi se lo dimentica più quel nome?
ANCORA TRA IL TURBATO e il divertito per quell’episodio, in serata vidi un’ottima Memphis-Louisville alla Pyramid, un surreale impianto non lontano dal Mississippi incorniciato da una statua del faraone Ramsete (quale, se I o II o III, non saprei dire), poi il giorno dopo presi la via di Woods. Solo che pioveva forte, e le stradine tra il motel di Tupelo (accento sulla u, cittadina natale di Elvis Presley) e Booneville non erano il massimo: ricordo in particolare il buio costante e avvolgente, la sensazione che solo i fari dell’auto potessero rischiarare una notte precoce – era fine gennaio, ricordate – mai illuminata da lampioni. Suggestivo guidare così, nel nulla oscuro che faceva sentire anche la distanza dall’America delle metropoli, con la musica tenue di una stazione country, ma in certi tratti si faticava a capire la direzione da tenere, fino a che Booneville non spuntò dopo una curva, e si manifestò nella sua scarna semplicità di poche case (8000 abitanti) e quella sorta di capannone in cui giocava il Northeast Mississippi Community College, la squadra di Woods. Roba – e lo diciamo nel più dolce dei significati – da fiera di paese: biglietti per la partita tipo cinema, sedie dietro il canestro, bella gente venuta alla partita con l’abbigliamento del lavoro (nei campi, in alcuni casi) o che tale pareva, e in tutti i gesti, dal semplice saluto all’invito ad accomodarsi al tavolo stampa, una cordialità così classica di quelle parti da sembrare scontata, e quasi non credibile.
WOODS SI MATERIALIZZÒ dopo la partita tra le squadre femminili di NMCC e Itawamba Community College, e si vide già dal riscaldamento che era di un’altra categoria. Per forza: dopo il liceo, nel quale aveva avuto un rendimento – come dire? – altalenante, non era andato in un grande college solo per l’insufficienza nei voti, accasandosi al Moberly Area Community College nel Missouri per poi ritrasferirsi vicino a casa, al NMCC dove già era passato, qualche anno prima, Dontae’ Jones. Immarcabile, a quei livelli: oltre due metri e con movimenti da esterno, dominio atletico, nel trattamento di palla, nelle iniziative, e pazienza se non pareva mai mettere tutto se stesso in quel che faceva. Non ne aveva nemmeno bisogno, considerando la tristezza dei suoi avversari e del suo marcatore. Alla fine della partita si accostò con curiosità all’interlocutore italiano, ma nelle sue risposte fu cordiale, anche se non molto originale. Alcune settimane dopo decise di non andare a Memphis, di cui aveva accettato la borsa di studio, e di passare al draft, dove Portland lo scelse al numero 21. Il resto è noto: un biennio discreto, poi nel 2004-05 i problemi con la giustizia per i combattimenti tra cani organizzati nella sua casa, l’addio ai Blazers, poi Miami, New York, la D-League, l’Olympiacos e, prima di altre tappe europee, la Fortitudo Bologna, dove personalmente, vedendomelo di fronte, sentii chiudere un cerchio aperto sei anni prima in un posto molto lontano, decisamente diverso, e nel quale, se non fosse stato per la comprensione (nemmeno richiesta) di un agente di polizia stradale, avrei potuto rimanere molto di più, ma non certo a guardare partite di basket.
Roberto Gotta
L’articolo che hai letto è tratto dal mensile Superbasket # 0 del Maggio 2014