La vita tra i canestri non è sempre stata giusta con Frank. In qualsiasi altra squadra sarebbe stato una stella: avrebbe giocato in quintetto base, segnato più punti, partecipato agli All Star Game, guadagnato di più. Tutte cose che a Boston gli sono state precluse. Ma credete che gli sia dispiaciuto? Nemmeno un po’, visto che le ha barattate con sette titoli di campione NBA, un numero appeso alle volte del “Garden” ed un posto nella Hall of Fame di Springfield come primo “Sesto Uomo” della storia del basket. Una delle grandi sfortune di Frank Ramsey fu che nei suoi anni migliori il regolamento allora vigente nell’NBA permetteva la partecipazione di un massimo di tre giocatori per squadra all’All Star Game. Ne avrebbe collezionati uno all’anno, ed invece rimase a secco conscio del fatto che per vincere è necessario mettersi al servizio della squadra. Del resto è questa l’essenza dei Celtics, un gruppo in cui tutti sacrificano parte del loro ego per il bene comune, perché la vittoria è la somma dei sacrifici dei singoli.
Frank Vernon Ramsey Jr. nacque il 13 luglio 1931 a Corydon, un sobborgo rurale di cinquecento anime incastrato nel Kentucky occidentale ad una sassata dal confine “Tri-State” con Indiana ed Illinois. Nei primi anni visse con genitori e nonni in una di quelle grandi fattorie patriarcali che popolavano la zona. Erano gli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione, ed il piccolo imparò molto presto a dare una mano in famiglia. Quando Frank aveva sei anni la famiglia prese la I-41 e si trasferì qualche chilometro più a sud, in quella Madisonville che sarebbe diventata la nuova casa. Madisonville per il ragazzino era una vera e propria città, visti i suoi cinquemila abitanti, il fiorente mercato del tabacco e la stazione ferroviaria con le rotaie su cui rollavano vagoni carichi di carbone. Ma per il giovane Ramsey la prospettiva più eccitante era rappresentata dalle nuove amicizie e dalla possibilità di giocare a baseball e basket…sempre dopo aver dato una mano nella fattoria, ridipinto la staccionata, riempito le pozzanghere e ripulito la strada, ovviamente.
Frank si dimostrò abbastanza presto un atleta di caratura superiore ed a 10 anni già giocava allo stesso livello dei ragazzini di due o tre anni più vecchi. Il suo nome cominciò a circolare ben oltre gli stretti confini della Hopkins County fino ad arrivare a Lexington, la capitale dello stato. Negli anni di liceo coltivò la sua passione per lo sport in tre differenti discipline fino a diventare un “All State” sia con mazza e guantone che tra i canestri ed un “honorable mention” nel football. Nel 1949 un amico lo invitò a Lexington dove Cliff Barker e Ralph Beard, due dei “Fabulous Five” campioni NCAA l’anno precedente con Kentucky, vollero conoscere la stellina del liceo. E fu così che Ramsey venne “arruolato” dai “Wildcats” prima che dal loro allenatore, il volatile (e discusso) Adolph Rupp.
L’approccio dittatoriale, la maestria strategica e l’abilità motivazionale rendevano Rupp un’icona del basket americano ancor prima che cominciasse a mietere vittorie su vittorie. L’uso del talento locale (mediamente otto giocatori su dieci venivano dallo stato del Kentucky) gli regalarono il soprannome “The Baron of Bluegrass”, e purtroppo anche un’ingiusta nomea di allenatore razzista. Oltre ai fondamentali del basket insegnò la disciplina ed il sacrificio e guidò i “Wildcats” a quattro titoli. Ramsey entrò a far parte della squadra nel 1950 assieme a Cliff Hagan e subito vinse un titolo NCAA. Dopo una stagione da 32 vittorie e 2 sconfitte, nella finale di Minneapolis i “Wildcats” tennero Kansas State a secco di punti per otto minuti nel secondo tempo e trionfarono per 68 a 58. Al giorno d’oggi la città avrebbe proclamato una giornata di festeggiamenti per il campione, ma allora non era consuetudine, e Frank ritornò in una Madisonville tranquilla giusto in tempo per mettersi a lavorare nella segheria del padre. Nel campionato seguente la corsa da 29 vittorie e 3 sconfitte di Kentucky venne fermata da St. John’s nel torneo NCAA, ma Frank continuò a mostrare il suo talento e passò da 10 a 15.9 punti a partita, secondo marcatore di squadra dietro ad Hagan.
A quel punto però per i Wildcats arrivò la “mazzata”: nel 1950 il mondo del basket college era stato sconvolto dagli scandali del “point shaving”, la pratica messa in atto dalla malavita per mezzo della quale pagando alcuni giocatori per perdere un pallone lì o sbagliare un tiro là si “aggiustavano” i risultati in modo che il punteggio si adattasse alle scommesse piazzate. Diversi giocatori dei più prestigiosi atenei di New York erano stati arrestati e nel mese di ottobre del 1951 pure Kentucky venne risucchiata nel gorgo quando tre dei “Fabulous Five” (Ralph Beard, Alex Groza e Dale Barnstable) vennero accusati di aver “addomesticato” un risultato al Madison Square Garden nel 1949. I tre nel frattempo erano passati professionisti e vennero banditi dall’NBA, ma non era ancora finita. Nel marzo del 1952 il centro di Kentucky Bill Spivey venne allontanato dalla squadra e squalificato dall’NCAA, che a questo punto sospese i “Wildcats” dall’attività 1952-1953 pur garantendo agli atleti “innocenti” ancora un anno di “eleggibilità”. Così la stagione di Kentucky fu mestamente contrassegnata da sole quattro partite amichevoli interne con squadre nominate “Quelli di Ramsey” e “Quelli di Hagan”… una vera tristezza. Intanto nell’NBA un GM era estremamente attento: nonostante fosse risaputo che Ramsey, Hagan e Tsioropoulos avrebbero frequentato UK ancora per un anno, fu l’unico a rendersi conto che il regolamento NBA permetteva la scelta degli atleti che avevano completato quattro anni di università.
Nel draft 1953 Red Auerbach si assicurò Frank Ramsey, Cliff Hagan e Lou Tsioropoulos: l’NBA era stata stata messa nel sacco dal coach bostoniano e si affrettò a cambiare la regola. Nel torneo seguente i “Wildcats” tornarono al basket giocato vincendo tutti e 25 gli incontri disputati, ma per un “diktat” dell’NCAA alle Finali non avrebbe potuto schierare il trio “bostoniano”. Rupp allora rifiutò di partecipare al torneo, mentre Hagan (24 punti a partita), Ramsey (19.6) e Tsioropoulos (14.5) uscivano imbattuti. Frank firmò il suo primo contratto con Boston nel “dugout” dei Red Sox: i Celtics stavano disputando un’amichevole con gli Harlem Globetrotters a Fenway Park, e Red lo chiamò da parte proponendogli l’accordo. Sarebbe stata la sua unica negoziazione, perché da allora in poi dimostrò tale fiducia nei Celtics da spedire sempre il contratto firmato in bianco in modo che Red e Walter Brown apponessero la cifra che ritenevano congrua.
Una volta a Boston, Ramsey trovò in Auerbach un coach molto simile a Rupp. I biancoverdi non erano ancora il carro armato che avrebbe raso al suolo l’NBA negli anni ’60, ed il kentuckiano trovò spazio fin dall’esordio anche in virtù di un’estrema fiducia in sé stesso. Tanto che, quando segnò 24 punti ai Knicks ed un giornalista chiese al coach newyorchese Joe Lapchick cosa ne pensasse del rookie, Lapchick rispose: “Ramsey non è mai stato una matricola”. Auerbach con il Ramsey potè stabilire una “pattern” che sarebbe diventata un classico nell’NBA: l’utilizzo del “sesto uomo”. Il ruolo era semplice: Red non inseriva il numero 23 nel quintetto base ma lo metteva in campo dopo sette/otto minuti e poteva contare su un istantaneo apporto in termini di punti segnati ed atletismo.
Frank a sua volta era contento di giocare così perché in panchina poteva concentrarsi sull’avversario, studiarne punti di forza e debolezze, e quindi una volta in campo poteva usare la maggior freschezza per fiaccarlo definitivamente lasciando un segno sulla gara. Nella stagione da matricola Ramsey contribuì con 11.2 punti a partita e 6 rimbalzi ma il campionato di Boston non fu di quelli da incorniciare: un 36 vinte – 36 perse tra i mugugni ed un’eliminazione al secondo turno di playoffs per mano dei Syracuse Nationals. Subito dopo Frank venne richiamato alle armi e saltò quasi tutta la stagione successiva, rientrando appena in tempo per giocare l’ultima parte del campionato. Nel frattempo Auerbach aveva messo in piedi la trade perfetta mandando Macauley ed Hagan a St.Louis in cambio di Bill Russell, e quando Ramsey rientrò il 4 gennaio 1957 Boston era ormai in rotta per il suo primo titolo.
La prima “banner” arrivò solo dopo una durissima settima partita contro St.Louis. In uno scontro che finì 125 a 123 con Heinsohn ad ammassare 37 punti e 23 rimbalzi e Russell ad allentare una delle stoppate più importanti della storia dei Celtics, il canestro decisivo fu una sospensione sbilenca di Frank Vernon Ramsey che nel secondo “overtime” diede ai biancoverdi il vantaggio decisivo. Mentre gli altri festeggiavano a birra negli spogliatoi, lui stava calcolando freddamente la quota che avrebbero incassato come campioni NBA: 1,681 dollari a testa. Già allora si interessava di economia e non era frequente vedere un compagno chiedergli consigli su come investire i propri soldi. Congedato ufficialmente dall’esercito due giorni dopo la vittoria, il kentuckiano utilizzò il denaro del premio-vittoria per “irrobustire” il progetto che aveva in piedi, quello di una ditta di costruzioni a Madisonville.
A quei tempi, infatti, i professionisti dei canestri non erano pagati a sufficienza per permettersi di restare in panciolle durante l’estate, e da aprile (la stagione finiva prima) ad agosto anche i campioni NBA lavoravano come “comuni cittadini”. Frank però non era solo basket e finanza: si divertiva moltissimo a giocare scherzi ai compagni di squadra con Gene Conley e Tom Heinsohn come bersagli preferiti. Le “vendette” erano frequenti e conoscendone il carattere gli altri Celtics con lui escogitavano scherzi legati al portafoglio. Come la volta in cui le mogli dei giocatori andarono a fare shopping prima della partita e poi all’entrata del Garden, sapientemente imbeccate dai mariti e con la collaborazione della signora Jean Ramsey, le consegnarono tutti i pacchetti e le borse con gli acquisti. Quando Frank vide scendere la moglie verso i posti numerati sbiancò in volto ed a gesti cominciò a domandarle quanto avesse speso…uno spasso. Ma quando si trattava di fare sul serio, il numero 23 era tra i più tosti: “Ricordatevi che state giocando con i miei soldi” faceva notare prima di un’importante partita di playoffs ai compagni troppo rilassati, sottolineando il fatto che le quote riservate ai vincitori dell’NBA – ridicole se paragonate a quelle odierne – permettevano ai vincitori di tirare un po’ il fiato nella vita di ogni giorno. Nel campionato 1957-58, in seguito all’infortunio di “Jungle Jim” Loscutoff, Frank fu utilizzato in quintetto base come ala ed ottenne la media più alta di punti segnati in carriera: 16.5 con il 41.9% di realizzazione e 7.3 rimbalzi.
Nonostante l’epilogo amaro della sconfitta dei Celtics in Finale a causa dell’infortunio alla caviglia di Bill Russell, Frank confermò di essere un vero e proprio “jolly”. Nonostante fosse alto solo 191 centimetri, solitamente entrava in campo per dare fiato proprio ad Heinsohn e quindi in difesa marcava giocatori fisicamente più forti di lui. All’occorrenza giocava nel suo ruolo naturale di guardia per far riposare Bill Sharman ed a volte, mentre Cousy tirava il fiato, non era raro vederlo giostrare in cabina di regia. Nel 1959 Boston tornò al successo, ed anche se le cifre subirono una leggera flessione (segnò 15.4 punti ad allacciata di scarpe ma con solo il 37.8% al tiro), Ramsey dimostrò comunque solidità e continuità degne di una delle pietre angolari della Dinastia.
E poi Auerbach non si faceva influenzare dai numeri, e se “Frankie” tirava più spesso da lontano tutto sommato era un rischio calcolato ora che Russell attaccava con successo il tabellone avversario. Nonostante fosse circondato da futuri Hall of Famers, spesso fu Ramsey a togliere le castagne dal fuoco: il 9 aprile del 1960 con 24 punti (e 13 rimbalzi) fu il top-scorer biancoverde nella settima e decisiva sfida con gli Hawks, ed il 18 aprile 1962, nonostante un infortunio alla coscia, ne mise 23 nella settima con i Lakers. Ramsey continuò comunque ad interpretare alla perfezione il ruolo di sesto uomo oltre che ad essere un fondamentale punto di riferimento nello spogliatoio. Il leone in autunno non perse mai la sua mordacità sia in campo che fuori, ed un episodio lo testimonia: nella serie di finale del 1963 contro i Lakers Frank si era procurato una distorsione ad un dito e prima della partita seguente aveva deciso di chiedere al massaggiatore Buddy LeRoux di metterglielo a posto.
Ramsey soffriva di una leggera balbuzie, e ne venne fuori un mezzo disastro: “Hey, Buddy, do you think you could fuh-fuh-fuh, fi-fi-fix my fuh-fuh-finger”? (“Buddy, credi di potermi mettere a posto il dito”?) Auerbach era appoggiato alla parete lì vicino, e con calma studiata si tolse il sigaro dalle labbra: “Che succede alle tue effe, Frankie, sei un po’ nervoso”? E ghignando si rificcò il sigaro in bocca in attesa di una risposta. “Fuck you, Red! How did that come out”? (“Vaff…. Red: come è riuscita questa effe”?) L’intero spogliatoio esplose in una risata. Nelle ultime due stagioni il “fatturato” del “Kentucky Colonel” calò prima a 10.9 e poi ad 8.6 punti per gara per la diminuzione dei minuti d’impiego legata all’arrivo di John Havlicek, al quale idealmente Frank passò la torcia di Sesto Uomo. E lo fece senza esitazioni e senza gelosia per quel giovane che stava portandogli via il posto, come in passato Risen e Sharman avevano fatto con Russell e Sam Jones.
Gli insegnò tutti i trucchi compresi quelli “sporchi” che aveva svelato poco tempo prima a Sports Illustrated e che gli avevano causato una tirata d’orecchie dall’NBA. Ma il minutaggio limitato non gli impedì di uscire alla grande: il 26 aprile 1964 Boston superò per 105 a 99 i San Francisco Warriors nella quinta partita delle Finali, e Frank Ramsey realizzò 18 punti in 20 minuti di gioco. Nonostante Auerbach gli avesse chiesto di rimanere ancora un anno, il numero 23 declinò, saltò a bordo della sua macchina e si diresse verso Madisonville dove fece fortuna prima nel campo dell’edilizia e poi come direttore di banca. “Sempre più spesso – ammise – sull’aereo che ci portava a giocare in giro per gli Stati Uniti mi ritrovavo a pensare ai miei affari nel Kentucky e mi resi conto che questo non era l’atteggiamento giusto per un professionista”. Rimase comunque in contatto con i compagni sentendoli spesso al telefono e gustandosi sempre più, man mano che il tempo passava, le grandi imprese che avevano compiuto assieme.
La passione per i canestri restò viva, e nel 1970 accettò di allenare nell’ABA i Kentucky Colonels che si trovavano in difficoltà. Nonostante un record di 32 vittorie e 35 sconfitte in regular season, i Colonels cominciarono a far faville nei playoffs ed arrivarono alla finale in cui Ramsey trovò come avversario sull’altra panchina l’ex compagno di squadra Bill Sharman, coach degli Utah Stars. Utah vinse una splendida serie per 4 a 3, Ramsey decise di lasciare: per colmo d’ironia venne rimpiazzato da un altro ex-Celtic, Joe Mullaney. Frank tornò alla sua fattoria da 1200 acri ed alla banca di Dixon di cui è stato direttore per più di 35 anni, mentre Madisonville cresceva e diventava un importante polo manifatturiero del Kentucky. Nel frattempo poteva godersi qualche cavalcata o qualche nuotata con i tre figli e lo stuolo di nipotini. Il 15 novembre 2005 la sua casa di Madisonville venne rasa al suolo da un tornado e tutti i suoi cimeli furono dispersi da venti che viaggiavano ad oltre 300 chilometri orari. Ma Frank rimase illeso, a dimostrazione che nemmeno la furia degli elementi può spezzare i supermen in biancoverde…ci ha lasciato ieri, a 86 anni…il primo Sesto Uomo nella storia NBA, icona di un basket che andrebbe ricordato più spesso.