Vi è mai capitato di entrare in un bar e di trovarvi di fronte ad un personaggio famoso? Forse si, se avete vissuto abbastanza a lungo, vi piace il caffè e non vivete in un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. E se la domanda fosse: “Vi è mai capitato di farvi servire il caffè al bar da un personaggio famoso”? Beh, probabilmente la risposta sarebbe negativa…a meno che non vi foste trovati a gironzolare per il Connecticut qualche anno fa, diciamo nel 2015 (si, le probabilità giocano decisamente a vostro sfavore): in quel caso, entrando in uno Starbucks avreste potuto trovare un omone di due metri e dieci centimetri al di là del bancone, un uomo che solo nove anni prima aveva guadagnato l’ultimo dollaro di cento milioni, accumulati nel corso di 13 stagioni in NBA; l’uomo è Vincent Lamont “Vin” Baker, alle prese con una lenta e faticosa risalita dal baratro dell’alcolismo.
E dire che, tornando indietro negli anni, non troviamo tracce di disagio, violenze o altre circostanze che molto spesso anticipano ed accompagnano le “vite spericolate”: figlio di un pastore battista, Vincent ebbe un’ infanzia tranquilla e ben presto iniziò a mostrare notevoli attitudini atletiche, diventando la stella della squadra di basket nella sua High School, a Old Saybrook, Connecticut. Tuttavia nessuna delle università più “appetibili” parve accorgersi delle potenzialità del ragazzo che dovette ripiegare su Hartford, non certo quella che si usa definire una “fucina di talenti”. Eppure, nonostante i compagni non fossero certo fenomenali (in quattro anni il miglior record fu un pareggio tra vinte e perse, 14-14), Baker migliorò di stagione in stagione, fino a concludere, da senior, con cifre di tutto rispetto: 28.3 punti ad allacciata di scarpe (792 in totale, record tuttora imbattuto per la America East Conference) con 10.7 rimbalzi e un paio di assist.
Numeri importanti, e anche se Hartford non era Kansas o North Carolina, i GM mostrarono il dovuto interesse: al draft del 1993 non dovette attendere molto per essere chiamato sul palco, quando con la pick numero 8 furono i Milwaukee Buks ad assicurarsi i suoi servigi. Ancora una volta la squadra non era all’altezza, per usare un cauto eufemismo: più correttamente si dovrebbe parlare di un’accozzaglia di giovani di poche speranze e veterani che avevano ormai dato il meglio in altri lidi (Frank Brickowski, Ken Norman, Mike Gminski); il record finale fu un deprimente 20-62 ma Baker fece bene, risultando il secondo marcatore stagionale con 13.5 punti di media ed il primo rimbalzista, mostrando un senso della posizione e un gioco in post basso di primissima categoria, ciò che sarebbe stato marchio di fabbrica della sua carriera e che gli valse, per iniziare, l’inserimento nel miglior quintetto delle matricole. I tre anni successivi ai Bucks furono i migliori: selezionato sistematicamente per l’ All Star Game, concluse con 17.7, 21.1 e 20 punti di media ad incontro. Quello che i tifosi non sapevano era che Vin beveva, e beveva parecchio: prima delle partite, dopo le partite, in albergo e qualche volta anche DURANTE le partite. Nel 1997 si accasò ai Seattle Supersonics con il compito non facile di rimpiazzare Shawn Kemp e il primo anno fu all’altezza delle promesse: ancora una volta giocò la partita delle stelle ed aiutò i Sonics (con l’aiuto di “The Glove” Gary Payton) a raggiungere il ragguardevole record di 61 vinte e 21 perse…disgraziatemente i playoffs non furono altrettanto fortunati e i Los Angeles Lakers di Shaq ebbero la meglio in semifinale di conference, sconfiggendo Seattle in 5 partite. Nel 1999 firmò il nuovo contratto, uno di quelli che ti cambiano la vita, 86 milioni di dollari in sette anni; eppure qualcosa cominciava a non funzionare: le statistiche peggioravano e dopo la stagione 1998/99, quella del “lockout”, ingrassò di 20 chili: riuscì a rimettersi in forma, ma a partite da Vin Baker ne seguivano altre non all’altezza, finchè, trentunenne, venne ceduto ai Boston Celtics.
Qui, nel febbraio del 2003, coach Jim O’Brien “annusò” (letteralmente) il guaio durante un allenamento, costringendo il ragazzo ad ammettere di avere un problema…e pensare che, proprio per evitare di essere scoperto, si era abituato persino a bere collutorio. I Celtics lo sospesero per “ragioni personali”, stipulando un patto con il ragazzo: se avesse seguito un percorso di riabilitazione e non fosse più caduto nel vizio avrebbe giocato ancora in biancoverde, ma al primo errore sarebbe stato tagliato senza troppe cerimonie. Giurò che avrebbe rigato dritto e, come da letteratura dell’alcolismo, mentì: esattamnente un anno dopo ebbe il benservito e di fatto la sua carriera finì nonostante i tentativi di rimanere a galla a New York, Houston e Los Angeles (sponda Clippers); a 34 anni era out, depresso, ubriaco e dedito a ogni tipo di sostanza che potesse aiutarlo a dimenticare ciò che era stato e che avrebbe potuto essere.
Nel 2007 fu arrestato per guida in stato di ebbrezza mentre era di ritorno da una serata al Casinò; toccò il fondo quando fu costretto a dichiarare bancarotta: i 100 milioni guadagnati in carriera erano spariti, risucchiati da investimenti sbagliati, vizi e troppe persone di “fiducia” che avevano approfittato della situazione…al loro posto altri milioni, ma di debiti; la sontuosa casa in Connecticut e il ristorante che aveva aperto furono pignorati, non restava nulla, tranne l’obbligo di provvedere alla sua famiglia; smise di bere, ma chi avrebbe potuto aiutarlo concretamente? Si rivolse a Howard Schultz, già proprietario dei Seattle Supersonics quando Vin era ancora un campione; Schultz era diventato amministratore delegato di Starbucks e Baker si offrì di lavorare in una sua caffetteria. Venne assunto come responsabile: sveglia alle 3.45 per aprire il negozio, poi un caffè e un cappuccino via l’altro, verso la guarigione completa, come in una di quelle storie di caduta e rinascita di cui l’iconografia americana si nutre. Avrà poi modo di raccontare la sua esperienza in un libro, chiamato non a caso “God and Starbucks”.
Da quel momento fu un lento ritorno alla vita, dapprima come commentatore delle partite casalinghe dei Milwaukee Bucks su Fox Sports, poi nel 2017 diventò responsabile del “basketball department” a Camp Greylock, un noto campo estivo per ragazzi che si tiene a Becket, Massachussets, dal 1916; per ultimo, nel gennaio del 2018, il rientro nel mondo dei canestri “vero”, in qualità di assistente allenatore ancora ai Bucks. Finalmente il futuro non è più un buco nero e l’omone di 2 metri e dieci centimetri che è stato campione e barista può finalmente sorridere quando guarda suo figlio, Vin Junior, calcare il campo di basket con la canotta di Boston College.