E’ il 16 giugno 1996, i Chicago Bulls hanno appena vinto gara 6 contro gli agguerriti Seattle Supersonics. Michael Jordan sta festeggiando con l’immancabile sigaro di “auerbachiana” memoria assieme al fidato Scottie Pippen e a coach Phil Jackson. E’ il suo quarto titolo, il primo dopo il ritorno dalla curiosa parentesi dedicata al baseball.
Mentre la ”Windy City” si prepara per la parata, il resto della NBA sta affilando le armi per dare l’assalto al regno dei Bulls. Si prospetta un’estate esplosiva, capace di sconvolgere gli equilibri della Lega. Il 30 giugno scadono, infatti, i contratti di Michael Jordan, Shaquille O’Neal, Alonzo Mourning, Reggie Miller, Allan Houston, Dennis Rodman, John Stockton, Gary Payton, Juwan Howard, Horace Grant, Kenny Anderson, Dikembe Mutombo e P.J. Brown, tutti giocatori che possono cambiare le sorti di una franchigia. Ci sarebbe anche Magic Johnson – tornato a giocare per qualche scampolo di partita nella stagione precedente – ma ha annunciato il ritiro definitivo.
Come “antipasto” si tiene il Draft. Un Draft epocale, per molti il più talentuoso di sempre, migliore anche di quelli del 1984 (Hakeem Olajuwon, M.J., Charles Barkey e Stockton) e del 2003 (LeBron James, Carmelo Anthony, Chris Bosh, Dwyane Wade). Saliranno sul podio a stringere la mano di David Stern tre futuri MVP (Allen Iverson, Steve Nash e Kobe Bryant), 7 All Stars (Shareef Abdur Rahim, Stephon Marbury, Ray Allen, Antoine Walker, Predrag Stojakovic, Jermaine O’Neal e Zydrunas Ilgauskas) e un vincitore del premio di “Difensore dell’Anno” (Marcus Camby).
Ma tutti aspettano la free agency e, in particolare, le mosse di tre squadre: Miami Heat, New York Knicks e Los Angeles Lakers.
In Florida, Pat Riley sta formando una corrazzata per provare a conquistare il primo titolo nella storia della franchigia e vendicarsi dei Knicks, con i quali si è lasciato malino solo un anno prima. Dopo aver confermato Mourning e Hardaway – “Il Mago di Zo” ottiene il primo contratto da 100 milioni di dollari nella storia della NBA – vengono firmati P.J. Brown e Juwan Howard, per una campagna rafforzamenti che pone gli Heat come i principali avversari dei Bulls. Ma, per un puerile errore di cronologia nelle firme, la NBA invalida l’acquisizione di Howard per la mancanza di spazio libero del cap. Incredibile, Howard è costretto a ritornare a Washington dal suo amico Chris Webber.
Reduci da una stagione sconfortante, i Knicks inseguono tutti i principali free agent. Il sogno è portare nella “Grande Mela” Jordan e Phil Jackson, ma è solo una suggestione dei fantasiosi tabloid newyorkesi. Più realisticamente, il loro piano A prevede l’arrivo in città di Reggie Miller, Charles Barkley e Kenny Anderson, il talentuoso play originario del Queens. Nessuno di questi si convince del progetto, così il G.M Ernie Grunfeld porta a conclusione il piano B e consegna nelle mani di Jeff Van Gundy Larry Johnson (arrivato in cambio di Anthony Mason), l’elegante tiratore Allan Houston e Chris Childs, la sorpresa della stagione precedente con i Nets. Il roster è fisico, esperto e profondo, Van Gundy può “pescare” dalla panchina John Starks (quell’anno sarà nominato “Sesto uomo dell’anno”), Charlie Ward e Buck Williams.
I Lakers, al contrario, stanno puntando tutto su un solo free agent: Shaquille O’Neal. Il colosso di Orlando vuole abbandonare Disneyworld, troppo periferica e noiosa per un personaggio come lui, con velleità di attore e cantante e, in generale, troppo personaggio per una piazza così piccola. Jerry West ha fiutato l’affare e inizia a liberare lo spazio salariale necessario per presentare l’offerta giusta. La prima mossa è cedere Vlade Divac a Charlotte per la scelta numero 13 del Draft 1996, un “certo” Kobe Bryant. Ma è decisiva la trade ai Grizzlies di Anthony Peeler e George Lynch. Dopo pochi giorni viene ufficializzata la firma: 120 milioni per 7 anni, il contratto più oneroso della storia della NBA. O’Neal, e la sua potenza sottocanestro, andranno a completare un nucleo fondato sul talento bizzarro di Nick Van Exel, sull’atletismo di Eddie Jones, sull’esperienza della bandiera Byron Scott, la solidità di Elden Campbell e Jerome Kersey. Arrivano anche i giovani Derek Fisher e, soprattutto, Kobe Bryant, il “liceale meraviglia” brillante alla Summer League di Long Beach. Le aspettative sono alle stelle, Los Angeles torna tra le squadre favorite della Western Conference.
Se Reggie Miller, John Stockton (c’erano dei dubbi?), Horace Grant e Gary Payton accettano le proposte di rinnovo nelle rispettive squadre, altri preferiscono nuove avventure. Come Dikembe Mutombo, che decide di lasciare la promettente Denver per accasarsi ad Atlanta, una squadra molto ambiziosa che, con il centro africano, promette di disputare un campionato di avanguardia nella durissima Eastern.
Ma l’estate riserva anche le trade. Detto di Larry Johnson e Vlade Divac, il principale movimento riguarda una stella assoluta: Charles Barkley ha confidato a Jerry Colangelo che vorrebbe andarsene per puntare un’ultima volta al titolo. Phoenix lo accontenta, “Sir” Charles va ai Rockets per comporre un terzetto da favola con Hakeem Olajuwon e Clyde Drexler. Tre futuri Hall of Famer che uniscono le forze per tentare di spodestare Jordan. E’ il primo tentativo di assemblare una squadra fondata su tre grandi giocatori e qualche gregario di lusso, il modello che poi sarà seguito da Boston nel 2008 e Miami nel 2010.
A Chicago il compianto Jerry Krause si limita a confermare la squadra campione 1996. “Air” rifirma alla cifra di 35 milioni annui (una cifra superiore all’intero cap, che quell’anno si assestava a circa 24 milioni) e Rodman strappa un annuale da 9 milioni.
La stagione 1996/97 promette davvero di essere una delle più entusiasmanti di sempre, con i favoriti Bulls a dover respingere l’attacco di tantissime pretendenti e con molte facce nuove da scoprire. Ma sarà davvero così? Anzi, sarà stato davvero così? Alla fine come andò la stagione? E i protagonisti del mercato estivo come si comportarono?
Miami e New York lottarono per il primato nella Atlantic Division e per il secondo posto nella Eastern, ma la battaglia esplose, letteralmente, nei playoffs. La sfida sarebbe passata alla storia per la rissa che – pianificata, secondo i malpensanti, da Pat Riley – rimise in corsa gli Heat. Al termine di gara 5, con gli Heat ormai in controllo della partita che riportava la serie su un più onorevole 3-2 a favore di New York, P.J. Brown scaraventò Charlie Ward tra i fotografi. Ne scaturì una rissa in pieno stile western, la “panchina” dei Knicks entrò in campo per difendere il compagno. Le squalifiche comminate dalla NBA ridussero ai minimi termini il roster di New York nelle due partite successive, Miami ne approfittò andando a vincere la serie per 4-3 e conquistandosi il diritto di fare da “agnello sacrificale” contro i Bulls nella Finale ad Est.
Ad ovest, O’Neal patì qualche infortunio di troppo ed emerse la mancanza di un tiratore capace di punire i raddoppi, ma i Lakers riuscirono a vincere 56 partite. L’eliminazione da parte di Utah – con il diciottenne Kobe a prendersi i tiri del possibile pareggio in gara cinque – scatenò le solite critiche a L.A. Anche se all’epoca non era chiaro, Jerry West aveva compiuto un capolavoro: in soli due mesi aveva costruito l’asse portante (O’Neal–Bryant) della squadra capace di vincere tre titoli consecutivi qualche anno più avanti, ma questa è un’altra storia.
Sulla carta Houston era la squadra più accreditata per spodestare i Bulls, ma il campo a volte dà risposte contrastanti. I “Big Three” soffrirono molto nel trovare la giusta chimica, soprattutto Hakeem e Barkley. Ma fu la mancanza di un regista di livello visto a risultare decisiva, Brent Price fu infortunato tutta la stagione e Matt Maloney mancava di quel carisma necessario per guidare così tante personalità. In post season i Rockets eliminarono i Sonics, finalisti l’anno precedente, poi s’inchinarono a Utah in Finale di Conference. Per ironia della sorte, furono eliminati dalla squadra di John Stockton, il miglior regista della Lega, per di più decisivo in gara 6 con la sua tripla a pochi secondi dal termine.
In Finale si affrontarono Chicago e Utah. Alla fine di una serie fantastica, i Bulls sconfissero i Jazz di Stockton e Malone, solidi e ostinati nel recuperare l’iniziale 0-2 ma incapaci di arginare il Jordan dell’incredibile Gara 2 (38 punti, 13 rimbalzi e 9 assists) e del “Nausea Game”, la magnifica versatilità di Scottie Pippen, il solito Rodman dominante a rimbalzo, la completezza tecnica di Toni Kukoc e la precisione al tiro di Steve Kerr, decisivo in gara 6.
Al termine di quella sesta partita Jordan e compagni, con champagne e sigari, festeggiarono il quinto titolo negli spogliatoi dello United Center.
Proprio l’immagine da cui siamo partiti per raccontare quella pazza estate del 1996.