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      My Movies – Ray, Jesus e la sinusoide di “He Got Game”

      Ray Allen entra nella Hall of Fame 20 anni dopo la sua interpretazione nel capolavoro di Spike Lee

      Angelo Mozzetta by Angelo Mozzetta
      15 Settembre 2018
      in NBA, Scrollbar, UOMINI
      0
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      Questo finale di estate deve essere stato particolarmente carico di significati per Ray Allen: entrare a far parte della Naismith Memorial Basketball Hall of Fame è uno dei più grandi traguardi della pallacanestro, ma probabilmente per un giocatore del suo livello il riconoscimento non è stato una gran sorpresa. Al contrario di un emozionatissimo Dino Radja, ad esempio, Allen ha recitato alla perfezione la parte davanti al microfono: un discorso pulito in cui con la stessa leggerezza ed eleganza che lo contraddistinguevano sul campo ha stavolta dribblato le polemiche lasciando comunque un amaro in fondo. Sia mai che la sua esperienza attoriale, certo non un’esperienza qualunque con Spike Lee, non lo abbia aiutato: in questo 2018 compie 20 anni l’iconico “He Got Game”, in cui Ray interpreta l’oramai leggendario Jesus Shuttlesworth.

      Ora, avete presente quando a un attore rimane incollata addosso una parte per sempre, anche nella vita reale? Beh, se i percorsi di vita di Ray e quelli “reali” e “possibili” dell’immaginario Jesus fossero due fili, il risultato sarebbe un’armonica sinusoide con punti di incontro ravvicinato da una parte e totale distaccamento dall’altra. Facciamo un esempio partendo dagli anniversari?

      1998 Ray Allen, già professionista coi Bucks, gira He Got Game.

      2003, 5 anni dopo l’uscita del film, a febbraio viene ceduto ai Seattle Supersonics, dove consoliderà il suo stato di star.

      2008, 10 anni dopo l’uscita del film, festeggia a Boston il suo primo anello NBA con i Celtics insieme agli allora Big Three e (e Big Bros) Pierce e Garnett.

      2013, 15 anni dopo l’uscita del film, vince il suo secondo anello con Miami da sesto uomo, grazie anche alla tripla più importante della sua carriera in gara 6 (3-2 San Antonio), che pareggia a 5.2 secondi dalla fine. Diventa anche recordman di triple ai playoffs.

      2018, viene accolto nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame.

      Pura coincidenza? Forse, ma chi sa che ne penserebbe un ossessivo-compulsivo come lui di una cadenza così regolare. Un militare, uno che controllava, calcolava, programmava e misurava ogni cosa, dall’alimentazione all’allenamento prepartita. Una sinusoide ancora più suggestiva, però, sarebbe quella che prova a indagare quanto ci sia di Jesus in Ray, e quanto Ray in Jesus. Partiamo dalle basi: il talento del predestinato. Un indubbio punto in comune per entrambi: Jesus è il più ambito liceale degli Stati Uniti e da una problematica Coney Island trascina i suoi al titolo statale di New York, Ray vince il titolo del South Carolina con Hillcrest e all’Università del Connecticut fa incetta di riconoscimenti personali tanto da essere scelto con la Pick 5 al draft del 1996. Altrettanto curiosamente, però, entrambi credono più al lavoro che al talento: Allen lo ha dichiarato la sera della Hall of Fame, Jesus non vuole ammetterlo perchè sarebbe riconoscere meriti al padre (al contrario di Ray che lo ha pubblicamente ringraziato), e non gli piace il suo nome, che con un eufemismo e molto tatto definiremo “impegnativo”.

      Già, i due padri, figure genitoriali così simili sul campo da gioco quanto distanti al di fuori: un integerrimo marine il primo, un alcoolizzato uxoricida involontario il secondo. Ma in campo, padre contro figlio preadolescente, nessuno sconto: che siano i campetti di Coney Island o i sabati con gli altri militari, dalla palla a due in poi non ci sono favoritismi. Allen ha raccontato la scorsa notte l’importanza del momento in cui ha schiacciato in testa all’inflessibile padre per la prima volta, mentre nel film la prima in cui lo fa Jesus, nello storico finale, è quella che segna la sua libertà di scegliere, un rito di passaggio al mondo adulto. Walter Allen Sr./Walter Ray Allen, l’uno la naturale estensione dell’altro; Jack Shuttlesworth/Jesus Shuttleswort, un Jack qualunque e un predestinato…che poi il Jesus che intendeva Jack fosse Earl “Pearl” Monroe è tutto un altro paio di maniche.

      E le madri? Una santa martire (Mary…) quella di Jesus, per cui il basket è solo un’attività per la quale far passare l’educazione del figlio, una integerrima madre badessa e prima tifosa la signora Flora Allen-Hopson, il cui nuovo marito e patrigno di Ray, amara ironia della sorte, ha rischiato di essere ucciso da uno squilibrato. I fratelli, una logica conseguenza: una sorellina a cui fare da padre prematuro per Jesus, quattro competitivi compagni di avventura per Ray nella loro bellissima famiglia.

      La sinusoide, però, a un certo punto non può che convergere verso l’ossessione cestistica, quella che gli americani chiamerebbero “The Choice”, la scelta. He Got Game, fra le altre cose come il rapporto padre-figlio e la condizione dei neri, è un capolavoro di film incentrato sulla settimana in cui l’ambito Jesus deve decidere in quale college andare: verrebbe da pensare che la cosa a cui pensare sia soltanto la pallacanestro. E invece vengono prima le pressioni di padre carcerato, ingenua sorellina, fidanzata doppiogiochista, agenti sporchi e corrotti, università scorrette, ragazze compiacenti, parenti sanguisughe, ex allenatori ipocriti. Al tifoso non rimane che stupirsi della strana scelta, non trovando senso “cestistico” alla cosa.

      Veniamo a Ray allora, e alla sua per molti versi oramai eterna, stucchevole e noiosa polemica sulla sua scelta di lasciare Boston e i Big Three. Per una serie di dissidi legati soprattutto al rapporto con Rajon Rondo e probabilmente anche a un risentimento con Ainge poiché si sentiva infilato in ogni trattativa e quindi non considerato, rifiuta i 9 milioni di Boston per accettare un biennale da due milioni l’anno per la corte di Lebron James, al momento a Miami, diretta concorrente per l’ultima corsa al titolo di quel ciclo Celtics. I tifosi non glielo perdonano, anzi alcuni ancora adesso vanno molto oltre le righe, Pierce ha avuto un parziale riavvicinamento da poco, Garnett è il più inflessibile perchè sente rotto il patto di fratellanza, affronto difficile da mandar giù per un carattere come quello di Kevin, cresciuto in un ambiente difficile come Mauldin, con il suo “OBF” sempre nel cuore. Questi sono i fatti.

      Un altro fatto, di certo, è il lanciare di continuo (tardivi?) appelli pubblici e frecciate/giustificazioni nella sua biografia per una riconciliazione che tarda a venire e magari non arriverà mai: una caduta di stile, anche per uno a cui troveremo l’attenuante di essere cresciuto in un contesto in cui il posto dove vivi cambia ogni anno, a seconda di dove l’Esercito sbatterà tuo padre. Nel discorso della scorsa notte Ray ha ringraziato Rivers, altro sostenitore della riconciliazione, ed Ainge, che da par suo alla cerimonia ha simulato un impercettibile cenno di assenso col capo, ma intanto dallo scorso anno il 20 lo porta Gordon Hayward.

      Probabilmente la migliore battuta che avrebbe dovuto portare avanti a riguardo l’ha tirata fuori proprio alla fine del suo discorso per la Hall of Fame: “Nessuno, oltre alla mia famiglia, sa chi sono veramente”. Guarda un po’, in bocca a Jesus ci sarebbe stata tremendamente bene.

      Tags: Carriera Ray AllenCeltics Big ThreeHall of Fame Ray AllenHe Got GameRay AllenRay Allen MiamiSpike Lee
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