Ogni ragazzino americano che entra in palestra e incomincia a far cigolare le scarpe ci mette meno di un secondo a sognare di giocare in NBA: nei precedenti articoli abbiamo parlato di gente che cerca di farcela (https://www.superbasket.it/2018/08/27/my-movies-amateur-2018-di-ryan-koo/) e di gente che ce l’ha fatta (https://www.superbasket.it/2018/09/15/my-movies-ray-jesus-e-la-sinusoide-di-he-got-game/). Perché allora non chiudere l’ideale trilogia parlando di chi non ce l’ha fatta? Di chi ha avuto altrettanto amore per il gioco ma forse mancava soltanto in uno fra centimetri, talento, cervello, costanza, atletismo? O magari, semplicemente non era pronto quando è passata l’occasione…
Nel 1992 il regista Ron Shelton sceglie Wesley Snipes e Woody Harrelson per dar vita a un sottovalutato cult movie, spesso ingiustamente relegato nella dimensione di film di genere. In Italia la traduzione del titolo non aiuta di certo: “White Men Can’t Jump” è un luogo comune dei playground americani, dal suono più politically correct di quelli sui neri che non difendono o peggio non usano il cervello, certo, ma non meno razzista; “Chi non salta bianco è” assomiglia molto di più a uno sberleffo da strada che indirizza un po’ superficialmente lo spettatore verso un cinematograficamente vendibilissimo “trash talking” ma lascia da parte molto altro. Troppo.
Innanzitutto, anche col senno di poi è un film perfettamente a suo agio con le epoche: realizzato agli inizi degli anni ’90, il film conserva l’alone superficiale di spensieratezza degli anni ’80 ma se ne distacca man mano, facendo fuoriuscire man mano un lato cinico e crepuscolare malcelato dal finto distacco inconsapevole e dal sorriso ad ogni costo di Billy Hoyle/Harrelson, novello Paul Newman di “Lo Spaccone” tanto lucido nel gioco (d’azzardo, si badi) quanto confusionario nella vita. Il sottile acume della sceneggiatura sta proprio nel suo saper giocare con le contraddizioni degli stereotipi e gli inganni delle apparenze: Sydney Deane ricalca alla perfezione l’immagine della “Ghetto-Supersar” del playground eccezionale con la palla ma ancor più fenomenale con la lingua, ma quando torna a casa ha una famiglia (allargata), un lavoro (di rappresentanza) e una moglie (castrante) che lo aspetta; da quel ghetto di cui è re e cuore, lui cerca di fuggire. Delle contraddizioni di Billy, neanche a parlarne…si presenta come un bianco campagnolo imbranato col look da sempliciotto per raggirare i gruppi di neri dei playground di Venice Beach e poi cambiare zona una volta che si conosce, in realtà è un fenomenale ex giocatore di college che scappa da un gruppo di mafiosi a causa di debiti contratti dalla sua donna. Di fatto, sia Sydney che Billy rispecchiano nelle apparenze ciò che ci si aspetta da un nero e da un bianco su un campo da basket, ma non è realtà: interpretano a loro vantaggio il personaggio che gli avversari si aspettano. Spostando lo sguardo sulla loro vita vera, infatti, non solo non avremo ciò che ci si aspetterebbe: Billy perde tutta la lucidità che lo caratterizza in campo negli investimenti e nella vita sentimentale tanto quanto Sydney perde la sua strafottenza nei medesimi ambiti. Non sembra casuale, in questo senso, la scelta di una mulatta: Rosie Perez, nei panni di Gloria Clemente, è la scapestrata e volubile compagna di Billy che probabilmente insegue un sogno ancor più strampalato delle ambizioni dei due protagonisti, ma rivela un progetto di vita molto più concreto e la capacità di imparare dai propri errori e, citando una delle sue più importanti interpretazioni diretta da Spike Lee, “Fa’ la cosa giusta”.
In USA il film è rimasto un cult nell’ambiente: Russell Westbrook e Nick Collison lo hanno omaggiato con un cos-play su Instagram ad Halloween mentre a Gennaio 2017 è stato annunciato dalla Mortal Media (fra i produttori anche Blake Griffin e Ryan Kalil) un remake ancora in corso di progettazione. Probabilmente, col senno di poi, ci si accorgerà sempre di più che al di là dei divertenti siparietti, della bravura (cestistica e non) degli interpreti e della bella colonna sonora, quella che può sembrare incompiutezza di sceneggiatura nella rappresentazione dei personaggi è in realtà una perfetta messa in scena di un incontrovertibile passaggio fra le epoche, oltre che un elogio dei “primi ultimi”. Il vero tema sembra essere quindi il disorientamento che il cambiamento ha prodotto in chi negli anni ’90 ci si è trovato in mezzo e, in una società in cui i costumi cambiano ma l’apparenza rimane comunque tutto, deve fare i conti col fatto che le passioni, il lavoro e i soldi non viaggiano più su binari paralleli, ma seguono rotte mai viste prima e diventa sempre più difficile farle incontrare.