Il draft del 2003 fu senz’altro eccezionale: ben nove atleti di quella “nidiata” possono infatti fregiarsi del titolo di All Star. Parliamo del draft di LeBron James, Chris Bosh, Dwyane Wade, Chris Kaman, David West e, naturalmente, Carmelo Anthony: quando i Nuggets lo selezionarono, ringraziando i Pistons e la loro disgraziata decisione di scegliere Darko Milicic alla 2, erano sicuri di aver messo le mani su un fenomeno…e in effetti Melo è (stato) un campione e i numeri lo confermano: diciannovesimo nella clasifica di tutti i tempi per punti segnati in NBA (con la concreta possibilità di scavalcare Alex English e Kevin Garnett), dieci volte All Star in quindici anni di carriera.
Tuttavia, nonostante questo ben di Dio, Melo sembra condannato a rimanere a metà del guado, quello che divide i campioni dai fuoriclasse, i bravi dai vincenti, i mortali dagli immortali. L’altra faccia della medaglia è in effetti assai meno scintillante: nessun inserimento nel miglior quintetto NBA, nessuna delle sue squadre ha mai vinto un titolo, anzi, neppure è approdata ad una finale. Lo scarno palmarès del ragazzo è fermo ad una sequela di eliminazioni al primo turno di playoffs e alla miseria di una semifinale e una finale di conference perse. Poco, pochissimo, tanto da tracciare negli anni l’identikit di un giocatore capace di grandi cifre ma non in grado di calarsi nel ruolo di leader, quello che riesce anche a migliorare i compagni. Dopo gli anni passati a Denver e New York, nel 2017 ha tentato l’esperienza Oklahoma City, ancora con scarse soddisfazioni…anzi, per la prima volta è sembrato un giocatore che sta imboccando il viale del tramonto. Arriva da un’estate movimentata: ceduto dai Thunder agli Atlanta Hawks è stato rilasciato, inchiostrando poi un contratto annuale a 2.4 milioni di dollari con gli Houston Rockets, ed è proprio a Houston che, verosimilmente, si giocherà l’ultima carta per vincere quel benedetto anello.
In quale veste? Un Anthony partente dalla panchina sarebbe un plus notevole per i Rockets: è integro, la classe non si discute e sembra il prospetto ideale per garantire esperienza e punti ad una second unit che potrebbe diventare devastante. Inoltre le primavere stanno per diventare 34 e l’ultima esperienza da titolare ha evidenziato una perdita secca di sei punti abbondanti di media tra l’ultimo anno ai Knicks e quello ai Thunder. Al momento del suo ingaggio gli opinionisti si sono divertiti ad immaginare una serie di scenari, ricordando come, l’anno precedente, alla domanda di un cronista che gli aveva chiesto se se la sarebbe sentita di uscire dalla panchina ad OKC, Carmelo rispose con un poco accomodante “chi, io?”.
Durante la offseason, tuttavia, i pericoli di un “caso” sembrano affievoliorsi: D’Antoni non conferma nè smentisce di aver già preso tutte le decisioni, ma in questi giorni, durante gli allenamenti il ruolo di ala piccola titolare è appannagio di Eric Gordon ed Anthony sembra molto più “morbido” circa la possibilità di entrare a gioco già iniziato, dichiarando nell’ambito del rituale “media day” che è pronto mettersi a disposizione per ciò che il coach riterrà più opportuno. Considerato che in posizione di ala grande presumibilmente partirà P.J. Tucker per garantire apporto difensivo ad una squadra altrimenti troppo sbilanciata “in avanti” specie dopo l’addio di Trevor Ariza, ecco che i giochi sembrerebbero fatti.
Riuscirà Carmelo a mettere da parte il suo ingombrante ego per un intero campionato? Basterà la prospettiva di lottare per quel titolo che ormai sembrava essere diventato un lontano miraggio? Se sì, abbiamo un autorevole candidato al premio di sesto uomo dell’anno per la stagione 2018/19, altrimenti i giornalisti sportivi del Texas avranno di che scrivere. Non ci resta che aspettare.