Intervistato da Roberto De Ponti del Corriere della Sera, Jeff Brooks ha parlato di basket e di vita.
LA MOGLIE BENEDETTA E IL FIGLIO JORDAN – “Al di là del passaporto, ringrazio mia moglie perché è stata decisiva nel modellarmi, nel farmi diventare l’uomo che sono. Mio figlio fa quello che facevo io alla sua età. Sembra me. Io capisco un po’ di italiano ma parlo in inglese. Benedetta con me parla in inglese e con Jordan in italiano. E Jordan è una spugna, impara tutto. Anche lo spagnolo, quando vivevamo in Spagna”.
GIOCARE PER L’ITALIA – “Ho provato un grande senso dell’onore. Giocare in una Nazionale non è come giocare in una squadra qualsiasi. Non avevo mai giocato prima per una nazione. E so che moltissimi professionisti non potranno mai provare questa sensazione, giocare per un popolo. Ho provato gratitudine per aver vissuto questa esperienza. E ha inciso il fatto di aver giocato per il Paese che mi ha adottato, per il Paese di mia moglie”.
JESI, LA PRIMA TAPPA ITALIANA – “Avevo 22 anni. Mi sembrava di essere atterrato su un altro pianeta. In America c’è questa mentalità, che poi ho scoperto essere sbagliata: non ci si preoccupa di capire le altre culture. Sai che c’è il Messico, il Canada, il resto del mondo è così lontano… Dell’Europa sapevo poco o nulla. Visto da qui, lo considero un grande errore culturale. Da promettente giocatore di college, mi sono infortunato alla spalla destra. E la Nba mi considerava, sì, ma nemmeno troppo. Quando è arrivata la chiamata da Jesi, il mio procuratore mi ha convinto dicendomi: quelli hanno cercato proprio te”.
A MILANO PER VINCERE – “Non è strano essere a Milano. È la vita, si cambia. Oggi sono felice di essere qui ma ricordo ogni secondo della stagione dei triplete, perché tutti parlavano di Sassari e di Milano. Io credo di essere figlio delle esperienze che ho avuto, quando stavo a Sassari davo il massimo per la mia squadra, tre anni dopo sono a Milano e tutti i miei sforzi saranno indirizzati a far vincere Milano”.