Era il 1991 quando Roberto Guglielmi decise di trasformare in realtà un’idea che Aldo Giordani aveva accarezzato senza mai tradurre in un progetto: creare una rivista interamente dedicata al basket americano. Giordani l’aveva già fatta: ogni anno uno dei cosiddetti numeri estivi di SB era tutto incentrato sul basket americano. La perla erano i paginoni con le statistiche complete di ogni squadra. Era divertente quando un americano arrivava in Italia andare a cercarne i numeri nella NBA scavando in fondo alle ultime posizioni del roster della sua formazione. Ma Giordani si era fermato lì.
Guglielmi era un giornalista-manager ed era l’uomo che Alfredo Cazzola aveva identificato per guidare il suo sbarco nel mondo dell’editoria sportiva. Cazzola era l’imprenditore bolognese che aveva lanciato il Motorshow e, sull’onda di quel successo, aveva rilevato la Virtus Bologna traghettandola nell’era seguente a quella firmata dall’avvocato Porelli. Cazzola – che in seguito avrebbe gestito anche il Bologna calcio – era un ciclone, una palla di energia, infaticabile, severo e durissimo, ma al contrario di quello che si diceva all’epoca, non permetteva alla sua carica di proprietario di una squadra di Serie A di primissima fascia all’epoca di interferire sulla sua attività di editore. Guglielmi vide in ASB un potenziale colpo editoriale. Cazzola era d’accordo. ASB nacque così.
Il Direttore responsabile era Enrico Campana: aveva preso il posto di Giordani a Superbasket, era (lo è ancora comunque) un giornalista di rottura, nel senso che creava divisione. Era amato e odiato dagli addetti ai lavori. Di sicuro aveva la notizia nella manica, grande passione e zero timore di procurarsi nemici. Ma non era un fanatico di basket americano. Lo seguiva perché era un dovere farlo, perché era curioso di natura, perché amava il basket. Ma lo guardava con un po’ di freddezza e sosteneva andasse raccontato in un modo particolare. Come se fosse una favola, una storia, un romanzo, relegando l’aspetto tecnico in secondo piano, perché quello ci avrebbe fatto diventare dei critici del basket americano o della NBA. Mentre vedendo le cose da questa parte dell’oceano dovevamo esserne amanti curiosi. Aveva ragione al cento per cento. Almeno per quei tempi – non c’era internet, ogni notizia era una battaglia vinta – aveva ragione.
Venni scelto come coordinatore – eccellente definizione che da un lato poteva appagarmi e dall’altro non significava che avessi un ruolo direttivo – perché ero il pi. “malato” di tutti in redazione (in seguito sarei stato eguagliato da Stefano Benzoni).
Se devo riconoscermi un merito all’interno di un giornale che ha avuto venti anni spettacolari (non tutti spettacolari ma molti sì), che è stato mensile, quindicinale, a tratti settimanale, è che non mi accontentavo di conoscere le cose bene vivendo a sei/nove ore di fuso orario di distanza dagli Stati Uniti, volevo provare a saperne quanto e magari più dei colleghi che vivevano a contatto con quel mondo tutti i giorni.
Quando ASB mi ha dato l’opportunità di viaggiare negli Stati Uniti, non solo per i grandi eventi, mi sono messo in competizione con tutti, non solo con chi come me osservava quel basket dall’Italia. Io come
Roberto Gotta, uno dei giornalisti top di quell’esperienza, il più bravo a rispettare il credo di Campana, ovvero il più bravo a raccontare le cose che vedeva e vede. Condividevamo anche il desiderio di capire il basket americano comprendendo prima di tutto l’America e poi lo sport americano. Per me come conseguenza della passione per il basket e un certo modo di interpretarlo; per Gotta in modo più genuino, perché credo gli sia sempre piaciuto di più il football. Però nel 1999 andammo a pranzo a Milano con Tim Duncan. E lui dopo scrisse un blog e disse che era rimasto impressionato da quanto bene conoscessimo il basket americano. Pensava di doverci spiegare cos’era Wake Forest o che clima ci fosse a Salt Lake City.
A Chicago nel 1993 la NBA porta gli europei presenti alla finale tra Bulls e Suns, una manciata, ad un clinic di Jack McCallum, strepitoso giornalista di Sports Illustrated. Ci spiegò di quanto fosse difficile scrivere per una rivista quando incombe la deadline: “Avevo scritto il mio pezzo pensando che i Bulls sarebbero andati sul 3-0 dopo le due vittorie di Phoenix. Non solo hanno perso ma gara 3 è finita dopo tre supplementari. E io ho dovuto riscrivere i primi tre paragrafi al volo”. Ok, ma io e i miei compagni a SB e ASB lo facevamo tutte le domeniche.
Claudio Limardi