Sappiamo che l’americano medio ama lo spettacolo in tutte le sue forme, la competizione, il “molto”, spesso anche il “troppo”. Non può dunque stupire la soddisfazione con cui Adam Silver, “padrone del vapore” nel circo NBA ha commentato recentemente il deciso balzo in avanti dei punti segnati per partita: ogni squadra, infatti, nei 48 minuti infila la bellezza di 110.8 punti (statistiche aggiornate a Venerdi 10/11) confermando una crescita pressochè continua dai 96,3 della stagione 2011/12, passando per i 102.7 del 2012/13 fino ai 106.3 del 2017/18. Si tratta di una media davvero impressionante, tanto più se si guarda indietro nel tempo e si realizza che per trovare un numero più alto occorre risalire addirittura al 1971, quando si giocava uno sport assai dissimile da quello odierno.
I motivi sono diversi, e solo in parte si tratta dei cambiamenti regolamentari messi in atto dallo scorso ottobre: parliamo ovviamente del “reset” a 14 secondi dopo un rimbalzo offensivo ma anche delle modifiche alla valutazione dei falli di gioco, che tendono a disincentivare ancor di più i contatti e a premiare l’attacco a scapito della difesa. L’immediato risultato di questi due “aggiustamenti” è stato un netto aumento del numero di possessi per franchigia, passati in un anno da 97.3 a 100.6, nonchè un impennata dei falli fischiati (da 19.9 a 22.4) e conseguentemente dei tiri liberi. Sarebbe tuttavia superficiale considerare questi come gli unici fattori determinanti, perchè il percorso era già stato tracciato e ben visibile da tempo; dal 1979, anno dell’introduzione del tiro da tre punti mutuato dalla defunta ABA, il ricorso a questa nuova “arma” è andato sempre crescendo, dapprima in maniera graduale, poi sempre più spedita: si è passati dal 3% di tentativi da “acque internazionali” sul totale dei tiri tentati del 1980 all’ 8.1% del 1990, al 16.6% del 2000 e al 22.2% del 2010. Poi, dal 2012 in avanti la crescita è stata esponenziale; basti pensare che in questo 2018 la percentuale si è assestata, dopo 166 partite giocate (quello che comincia ad essere un campione rappresentativo), al 35%. “Merito” dei Golden State Warriors? In parte, perchè se è vero che laggiù nella Baia hanno costruito una fetta del loro successo sul gioco fatto di velocità e di tiratori chirurgici da oltre l’arco, è altrettanto vero che si sono inseriti in un trend già consolidato. Sicuramente lo hanno fatto meglio delle dirette avversarie, con il risultato di velocizzare la rivoluzione, e questo vale anche se parliamo di ritmi di gioco: sempre più squadre, in stile Kerr, puntano sulla corsa in transizione e sul tiro nei primi secondi di ogni possesso. Questo continuo ed ormai generalizzato tentativo di allargare il campo ha poi determinato un inevitabile svuotamento delle aree con il ricorso diffuso a quintetti “piccoli” e ad uno stravolgimento (o modernizzazione, a seconda dei punti di vista) del ruolo di lungo, sempre più tiratore e meno mastino d’area (con le dovute eccezioni), costretto giocoforza ad uscire sempre più spesso consentendo agli avversari di lanciarsi con limitato rischio in scorribande al ferro in quelli che fino ad un lustro fa erano percorsi ad ostacoli fatti di corpi, mani e gomiti. Il risultato della somma di questi addendi è sotto gli occhi di tutti, con punteggi che non di rado raggiungono quota 140. Piace? Non piace? Se spettacolo significa tout court “tanti punti”, la risposta non può non non essere positiva, ma se siete dei vecchi appassionati di basket che hanno vissuto anche altri tempi, probabilmente guarderete con un po’ di nostalgia le fotografie di Ben Wallace, Dennis Rodman, Walt Frazier, Bill Russell e degli altri grandi difensori che hanno fatto la storia del basket.