Los Angeles, 1 luglio 2018: è appena stata divulgata la notizia dell’accordo che legherà DeAndre Jordan ai Mavericks. Finisce definitivamente “Lob City”, il progetto da titolo dei Clippers fondato sulle visioni di Chris Paul, sulle spettacolari schiacciate di Blake Griffin e del predetto Jordan. Un progetto ambizioso che negli anni però non ha raggiunto quei risultati auspicati.
Per guidare quel nucleo talentuoso e promettente, nel 2013 fu chiamato Glenn “Doc” Rivers, identificato come l’allenatore ideale per trasformare in “contender” una squadra che per venti anni è stata la barzelletta della NBA. Rivers era all’apice della sua carriera – grazie al titolo del 2008 e le cavalcate nei playoffs con i Celtics – e decise di accettare la sfida proposta anche per non fronteggiare la ricostruzione del “dopo Pierce – Garnett”.
Il destino è spesso ironico e quella ricostruzione, evitata per un pelo a Boston, si è palesata quest’estate a Los Angeles. Dopo anni di tentennamento – passati anche attraverso i sostanziosi rinnovi dello stesso Jordan e di Griffin – la dirigenza della franchigia californiana ha deciso di ricostruire e prendersi un “anno sabbatico” per sviluppare i tanti giovani arrivati a L.A. Ma la stagione in corso, quella che sarebbe dovuta solo essere un interludio al progetto di rilancio della prossima estate, si sta trasformando in un inaspettato successo. L’inizio di stagione è stato entusiasmante, impreziosito da vittorie convincenti contro le “corrazzate” della NBA e la conquista della vetta nella terribile Western Conference.
L’artefice principale è sicuramente coach Rivers, e infatti la NBA lo ha nominato giustamente “Allenatore del Mese”. Se nel recente passato era stato sovente criticato per i mancati risultati dei Clippers – senza considerare però la serie di infortuni patiti da Paul e soci proprio nei momenti cruciali – , adesso è giusto riconoscerne i meriti: l’estrema propensione a investire sull’aspetto umano della relazione con i giocatori, che sempre lo ha contraddistinto nel suo modo di allenare, è emersa in modo decisivo, Doc è riuscito a motivare un gruppo in cui pochi credevano, trovando un equilibrio invidiabile e ottenendo dei risultati molto migliori di quanto a inizio stagione era realistico immaginare.
Una situazione che a Rivers non può non ricordare il suo primo anno su una panchina NBA, quello speso alla guida degli Orlando Magic. Nell’estate del 1999 i Magic decisero – proprio come gli attuali Clips – di smantellare la squadra cedendo gli ultimi pezzi della squadra che aveva conquistato la Finale NBA del 1995, e prepararsi per il rinnovamento da compiersi nell’estate successiva. Il roster era sostanzialmente composto da giocatori con poco pedigree, scartati e snobbati per anni, ma Rivers riuscì a veicolare tutte le loro frustrazioni, lo spirito di rivalsa e l’entusiasmo di veder loro concessa una chance. Darrell Armstrong, Ben Wallace, Bo Outlaw, John Amaechi, Matt Harpring furono il manifesto di quella squadra che riuscì a sovvertire i pronostici che la volevano tra le candidate per l’ultimo posto e, grazie a un basket frizzante ed energico, chiuse la stagione con un incredibile record di 41-41. Un record insufficiente per la qualificazione alla post-season, ma che consentì a Doc Rivers di aggiudicarsi il meritato titolo di “Coach of the Year”.
L’esperienza di Orlando presenta analogie e parallelismi con la presente stagione della seconda squadra di Los Angeles. In primis, quel desiderio di rivincita verso una stampa e un ambiente che non credevano minimamente alle loro possibilità, una voglia ancora più forte se pensiamo all’hype che circonda i Lakers di LeBron James. Inoltre, come quei Magic, i Clippers si basano su un attacco equilibrato e molto democratico in cui le responsabilità sono molto condivise e in cui manca il “go to guy”, cioè quel giocatore designato a risolvere i finali di partite . E poi quelle strane affinità e somiglianze in alcuni dei protagonisti delle due squadre. Se a Orlando tutto partiva da Armstrong, fonte inesauribile e contagiosa di energia per la totalità della squadra, a Los Angeles è l’aggressività difensiva di Patrick Beverley che detta i tempi di una delle migliori difese della Lega. In maglia Magic iniziò a farsi conoscere quel mostro di fisicità di nome Ben Wallace – forse il miglior centro difensivo “centimetro per centimetro” della storia -, allo stesso modo Montrezl Harrell è letteralmente esploso sottocanestro e si candida per essere nominato a fine stagione “Sixth Man of the Year” o “Most Improved Player”.
Rivers ha poi trasformato un potenziale problema in un’opportunità: Tobias Harris e Danilo Gallinari, visti inizialmente come “doppioni”, sono diventati un rebus irrisolvibile per le difese avversarie a causa della loro totale interscambiabilità. Harris – appena nominato “Giocatore del Mese” – sta vivendo una stagione stellare: oltre 21 punti di media con il oltre il 50% dal campo e il 40% dall’arco dei tre punti, tutti massimi in carriera e statistiche che potrebbero aprirgli le porte dell’All Star Game. Danilo, finalmente sano, non è da meno e sta giocando il miglior basket degli ultimi anni, segnando oltre 18 punti con un irreale 46% da tre e il 95% dalla “linea della carità”.
Altro merito non indifferente è l’aver lanciato Shai Gilgeous-Alexander, il rookie di 19 anni arrivato dopo una sola stagione a Kentucky. Una scelta coraggiosa ma una novità per Rivers visto che già a Boston decise di affidare la regia della squadra di Pierce, Garnett e Allen al giovanissimo Rajon Rondo. Il giovane canadese sta disputando una stagione davvero promettente, mostrando una sicurezza e un controllo invidiabili, dando ragione a Doc e ponendo le basi per un’ottima carriera.
La stagione è ancora molto lunga e gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo, ma i Clippers sembrano possedere quello spirito che potrebbe renderli davvero i “dark horse” nei prossimi playoffs. In quel caso, a casa Rivers dovranno preparare lo spazio il secondo premio di “Allenatore dell’Anno”.