Uno dei migliori romanzi della letteratura americana del novecento è “Stoner” di John Williams. Il romanzo descrive la storia di William Stoner, un uomo normale, un marito e un padre tranquillo che sopporta con apparente impassibilità l’evolvere della sua esistenza, che si lascia scorrere silenziosamente la vita resistendo, trovando rifugio nella pacata, ma anche intensa, passione per l’insegnamento.
Malcolm Brogdon è lo “Stoner” del basket NBA. Non certo per la vita privata – che non sappiamo come vada, e non ci interessa- ma perchè la sua carriera è avvolta da un sorprendente silenzio a dispetto di un rendimento che ha pochi eguali. Una peculiare indifferenza da parte agli addetti ai lavori che risale addirittura al momento della sua entrata nella NBA.
Se sei reduce da una carriera stellare a Virginia terminata a un passo dalle agognate Final Four, hai chiuso l’ultima stagione a 18 punti, 4 rimbalzi e 3 assists di media, con un ottimo 39% dalla tre punti, sei stato nominato per due volte consecutive Miglior Difensore e una volta Miglior Giocatore della ACC – una delle conference più competitive, difficili e ricche di talento dell’intero panorama collegiale -, ti aspetti che il tuo nome sia uno dei più ricercati al Draft e che lo sentirai pronunciare almeno tra le prime dieci o quindici chiamate. E invece no, Malcolm Brogdon vide giocatori come Dragan Bender, Georgios Papagiannis, Wade Baldwin, Henry Ellenson e Malachi Robinson selezionati prima di lui. E’ la NBA di oggi, concentrata su “upside” e potenziale, dove può succedere che un giocatore maturo, che ha perfezionato i fondamentali per quattro anni a Virginia sotto un grande allenatore come Tony Bennett, venga snobbato e scivoli desolatamente alla scelta numero 36.
La vendetta non tardò ad arrivare, e già al primo anno Brogdon ha procurò più di un incubo ai G.M. che decisero di “passarlo”. Da matricola, infatti, entrò subito nelle rotazioni di Jason Kidd, conquistando piano piano il posto in quintetto base e meritandosi il premio di “Rookie of the Year”. Ma anche allora, la conquista di questo riconoscimento passò quasi sottotraccia, eclissata dalle polemiche per il mancato riconoscimento a Joel Embiid (penalizzato per le troppe assenze).
Il secondo anno Malcolm fu retrocesso in panchina per far posto a Eric Bledsoe, ma il nuovo ruolo non significò affatto un ridimensionamento. A dispetto di un grave infortunio subito, dei tantissimi alti e bassi dei Buck e delle turbolenze interne che portarono anche al licenziamento di Kidd, Brogdon si distinse come uno dei migliori “Sesti Uomini” della Lega.
Quest’anno sta facendo ancora meglio: per il terzo anno consecutivo Malcolm ha innalzato le sue medie assestandosi sui quasi 16 punti, 5 rimbalzi e 3 assists di media, con un incredibile 52% dal campo e un ottimo 42% dall’arco. Ormai è una colonna portante degli arrembanti Bucks. In una squadra che vede il “divino” Giannis Antetokounmpo disporre delle difese avversarie, Tony Snell e Khris Middleton colpire con precisione dalla distanza, e Bledsoe creare punti grazie alla sua esuberanza, Brogdon rappresenta il “collante” perfetto tra le varie anime, colui che con regolarità, ogni sera mette al servizio della squadra la padronanza tecnica di ogni fase del gioco, la sobrietà e la straordinaria efficienza sia offensiva che difensiva.
A Milwaukee sono consapevoli di aver trovato una “gemma”, e non solo per come gioca a basket. Senza voler incorrere in facili stereotipi buonisti, Brogdon ha colpito anche per il suo spessore umano. Al college era uno studente talmente brillante da meritarsi il privilegio di alloggiare all’ambitissimo “The Range”, lo storico dormitorio progettato da Thomas Jefferson (il terzo Presidente degli Stati Uniti) per i primi studenti dell’Università di Virginia. Una reputazione che gli ha meritato il soprannome di “The President”, ma che sopratutto gli ha permesso di instaurare un legame particolare con l’ambiente e di creare una fittissima rete di conoscenze che si sono dimostrate determinanti per dar vita al sogno che accarezzava da quando era un bambino.
All’età di 10 anni, assieme ai genitori si recò in Ghana e rimase colpito dalle condizioni di vita dei villaggi che visitava. Da allora ha sempre sognato di poter aiutare le popolazioni africane nella loro difficoltà nel procurarsi l’acqua potabile. Un diritto che troppo spesso diamo per scontato, ma che purtroppo è (e sarà) alla base di malattie e carestie (nonché dei fenomeni migratori). Seguendo l’esempio di Chris Long – giocatore della NFL, anche lui ex Virginia, e fondatore di Waterboys – quest’estate Malcolm ha fondato Hoop2O, un’associazione benefica che ha come obiettivo la costruzione di pozzi in Africa Orientale. Grazie alla sua appassionata opera di persuasione Joe Harris, Justin Anderson, Garrett Temple e Anthony Tolliver si sono uniti alla campagna di raccolta fondi che ha l’obiettivo di arrivare a 225.000 dollari, la somma necessaria per la costruzioni di cinque pozzi e permettere così, finalmente, ad almeno 40.000 persone di disporre di acqua pulita e potabile.
Mancano circa 80.000 dollari ma dovrebbe essere raggiunto prima della fine della stagione. Una cosa è certa, per Malcolm quel traguardo non è meno importante del raggiungimento della Finale NBA, l’obiettivo che pare sempre più alla portata per questi Bucks.