Nell’immaginario collettivo i Philadephia 76ers dei primi anni 80 sono la squadra di Julius Erving. I voli del “Doctor” sono una delle immagini iconiche e immortali della NBA, e ogni appassionato di basket che si rispetti non può non esserne restato affacinato, ma se la “Città dell’Amore Fraterno” riuscì a riconquistare il titolo NBA dopo più di 16 anni, il merito fu di Moses Malone.
Dopo i tanti tentativi falliti malamente – le Finali perse con Portland nel 1977, malgrado il vantaggio di 2-0, nel 1980 e nel 1982 contro i Lakers, o la Finali di Conference persa con i Celtics del 1981, facendosi recuperare dal vantaggio più che rassicurante di 3-1– il management dei Sixers decise di andare sul sicuro e si accaparrò il “free agent” Moses Malone, il miglior centro della NBA, reduce da una stagione a 30 punti e 14 rimbalzi di media che gli permise di conquistare il titolo di MVP.
Un’operazione che all’epoca causò alcune perplessità per la cifra sborsata (13 milioni di dollari in sei anni, cifre che oggi fanno sorridere, ma un record per quei tempi), ma che tecnicamente fu subito applaudita. Un’acquisizione, per fare un parallelo con i nostri giorni, che ebbe la stessa portata della firma di Kevin Durant per i Warriors: un’addizione quasi ingiusta che fece subito capire chi fossero i grandi favoriti del campionato. Alcuni media, nel dare l’annuncio, si sbilanciarono così: “Philadelphia ha appena vinto il titolo NBA con la firma di Malone”.
Una dichiarazione forse eccessiva, ma neanche troppo guardando lo sviluppo della stagione. I Sixers partirono subito alla grande, inanellando successi su successi, infliggendo sonore sconfitte agli avversari di sempre (Lakers e Celtics), e chiudendo, malgrado un calo nel finale, a 65 vittorie. Malone rappresentò il propellente per una squadra che dopo la sconfitta nelle Finals del 1982 avrebbe potuto sfaldarsi. Maurice Cheeks, il play di quella magnifica squadra, esemplificò così l’impatto di Malone: “Con l’arrivo di Moses cambiammo il nostro atteggimento. Acquisimmo più fiducia nei nostri mezzi e diventammo consapevoli che potevamo vincere ogni partita, a prescindere dall’avversario“.
Dal lato tecnico, i Sixers acquisirono quella fisicità sotto i tabelloni necessaria per primeggiare nella NBA di quegli anni – una NBA nella quale ogni squadra aveva un centro “classico” e ogni attacco partiva dal post basso – e che era loro mancata palesemente nella Finale persa contro i Lakers di Kareem Abdul – Jabbar. I tanti rimbalzi catturati da Moses – grazie alla ferocia nel prendere posizione e la voglia incontenibile di catturare la palla – furono determinanti per il successo dei Sixers, perché permettevano a Cheeks d’innescare la transizione dei vari Erving, Andrew Toney e Bobby Jones. Per non parlare dei rimbalzi offensivi. Una statistica rende l’idea di quanto fosse dominante: Darryl Dawkins e Caldwell Jones, i suoi predecessori in maglia Sixers, catturarono in coppia 232 rimbalzi offensivi in tutta la stagione 1981/82; Malone nella stagione successiva ne catturò 445, arrivando a 232 alla quarantesima partita.
Dopo la cavalcata di 65 vittorie, che rappresentò il miglior record della Lega, Malone si aggiudicò il secondo titolo consecutivo di MVP (terzo della carriera), ma ammonì tutti che l’obiettivo per il quale era arrivato a Philadelphia era il titolo NBA. Non che avesse molti dubbi su chi lo avrebbe vinto, come dimostra l’epico proclama pronunciato da Moses Malone all’inizio dei Playoffs del 1983. L’autoritario “Fo’, Fo’, Fo’ ” , pronunciato da quel gigante con la sua consueta voce baritonale, fu il manifesto perfetto per la consapevolezza di superiorità dei 76ers di quella stagione. Nelle intenzioni di Malone i Sixers avrebbero avuto bisogno solo di dodici partite per arrivare al titolo, “sweeppato” ognuna delle tre avversarie e chiuso imbattuti il loro percorso verso la vittoria.
Non andò proprio così, ma i Sixers riuscirono a conquistare l’agognato “anello di Campioni” grazie a un eccellente 12-1, perdendo una gara contro Milwaukee. La Finale contro i Lakers non ebbe storia: i Sixers si presero una sonora rivincita, infliggendo un perentorio 4-0 ai campioni uscenti. In quella serie Moses dominò Kareem, chiudendo a 26 punti e 18 rimbalzi di media e conquistando anche il titolo di MVP delle Finals.
Finalmente Philadelphia potè festeggiare il titolo che mancava dal 1967, quando Wilt Chamberlain riuscì a interrompere il dominio di Boston e di Bill Russell. Wilt e Mo’, due centri dominanti, seppur in modo molto diverso, e accomunati dalla stessa maglia e dalla stessa città.
Una città che, la sera del 8 febbraio, ha finalmente saldato il suo conto di riconoscenza verso Malone con il doveroso ritiro della maglia da parte dei Sixers, rinnovando la “legacy”- il legame – con uno dei campioni più fulgidi della NBA ma, allo stesso tempo, anche uno dei meno osannati. La carriera dovrebbe parlare per lui (27.409 punti, 16.212 rimbalzi, tre volte MVP, sei volte miglior rimbalzista della Lega e 12 chiamate per l’All Star Game), ma il suo è un nome troppo spesso dimenticato quando si parla dei migliori centri della storia o dei campioni che hanno trascinato la NBA fuori dall’anonimato.
Per una notte non è stato così, Philadelphia ha mostrato tutta la gratitudine, l’apprezzamento, il calore e l’amore per Moses. Una cerimonia che ha vissuto momenti toccanti, con tutti gli ex compagni, Julius Erving in primis, accorsi per ricordare un campione che purtroppo ci ha lasciati nel 2015 a soli 60 anni.
Adesso il suo numero 2 pende dalle volte del Wells Fargo Center, il giusto riconoscimento per il trascinatore degli ultimi Sixers campioni NBA.
A Philadelphia sperano che sia d’ispirazione per Joel Embiid, “stranamente” un altro centro a cui sono affidate le speranze di un titolo NBA.