Negli Stati Uniti, il mese che sta per iniziare è da sempre sinonimo di college basketball. La March Madness, ovvero il periodo di pura ‘follia’ in cui si svolge il torneo NCAA ad eliminazione diretta, appassiona ogni anno un paese intero, pronto a esaltarsi per un canestro impossibile sulla sirena o a piangere per un’eliminazione inaspettata. Una passione viscerale (molto più intensa rispetto a quella per il basket professionistico), che finisce spesso per travolgere anche quelli che la NBA non la seguono affatto. Solo pochi degli atleti coinvolti diventeranno milionari grazie alla palla a spicchi; per moltissimi altri, la ‘Big Dance’ sarà invece il coronamento di una carriera, l’indimenticabile raffica di fuochi d’artificio che segnerà il passaggio all’età adulta. Insomma, un evento che rappresenta lo sport nella sua forma più genuina. Eppure, le nubi che sovrastano il regno del college basketball non sono mai state così minacciose. La NCAA si avvicina alla grande kermesse navigando in un burrascoso mare di polemiche. A far divampare un fuoco che, in realtà, non ha mai smesso di ardere è stato l’infortunio occorso a Zion Williamson, probabilissima prima scelta assoluta al prossimo draft NBA. Nel corso dell’ultima edizione del mitico ‘derby’ tra i suoi Duke Blue Devils e i North Carolina Tar Heels, l’astro nascente si è procurato una distorsione al ginocchio, causata dalla rottura di una scarpa (un incidente costato alla Nike oltre un miliardo di dollari di perdita in borsa). Non trattandosi di un problema di grave entità, l’episodio avrebbe potuto essere archiviato come un normale ‘rischio del mestiere’, invece ha scoperchiato definitivamente un vespaio pronto ad accanirsi contro un mondo, quello della NCAA, perennemente corroso da enormi contraddizioni.

Al centro delle polemiche c’è una domanda scomoda, ma inevitabile: ha senso che un potenziale All-Star rischi di compromettere un futuro milionario in un contesto in cui lui è l’unico a non guadagnarci? Attorno allo sport collegiale ruota un giro d’affari paragonabile in tutto e per tutto a quello professionistico. Basti pensare che i biglietti per assistere nelle prime file a quel nefasto Duke vs. North Carolina, già introvabili per tradizione, sono stati venduti a cifre vicine ai tremila dollari; roba da finale NBA. La presenza di fenomeni come Williamson fa entrare nelle casse dell’organizzazione e delle università svariati miliardi di dollari ogni anno, derivanti soprattutto da sponsorizzazioni e diritti televisivi. Gli atenei sono sempre più ricchi e i loro allenatori (autentiche ‘leggende viventi’ come Mike Krzyzewski e John Calipari), spesso considerati di livello superiore rispetto ai loro colleghi NBA, si guardano bene dal lasciare il loro ‘regno dorato’ per tentare stressanti avventure nella lega di Adam Silver (sebbene molte franchigie farebbero carte false per averli). Di questo strabiliante indotto, quale sarà mai la percentuale riservata ai giocatori, coloro che sul campo ci vanno per davvero? La risposta è semplicissima: zero, nada, rien.
La NCAA non è solo il regno delle contraddizioni, è anche quello delle normative. Ogni ateneo ha a libro paga individui che si occupano esclusivamente di controllare che il rigidissimo regolamento venga rispettato alla lettera, onde evitare squalifiche e sanzioni. Gli studenti-atleti non possono per nessun motivo ricevere dei compensi in denaro per i loro servigi. Per poter giocare, devono inoltre mantenere un certo rendimento scolastico, che giustifichi la borsa di studio a loro assegnata per meriti sportivi. Tutti princìpi più che onorevoli, che glorificano i veri valori dello sport. Peccato che tali princìpi siano da sempre offuscati dalla corruzione dell’animo umano. Ecco allora gli innumerevoli scandali legati ai reclutamenti illeciti (dai costosi regali ai parenti degli atleti all’ingaggio di fanciulle particolarmente estroverse che allietino i prospetti, come accaduto di recente a Louisville), i corsi accademici manipolati ad hoc per far raggiungere al fenomeno di turno i crediti sufficienti e altri sotterfugi di vario genere. E’ per questo che DeMarcus Cousins, centro dei Golden State Warriors ed ex-allievo di Calipari a Kentucky, ha sentenziato, citando involontariamente il ragionier Fantozzi: “Per me il college basketball è una stronzata”. Difficile dargli torto al cento per cento, anche perché il suo non è il primo (e nemmeno l’ultimo, possiamo scommetterci) sfogo contro l’establishment NCAA. In tempi recenti si erano espressi in modo simile anche Ben Simmons (che di fatto ha descritto come “inutile” la sua brevissima esperienza a LSU) e LeBron James (che ha definito la NCAA “un’organizzazione corrotta”).
Il caso di King James, seppur difficilmente replicabile nelle sue proporzioni, è il perfetto esempio di come gli ingranaggi del sistema sportivo americano abbiano bisogno di una bella oliata. Lui nella NBA ci è arrivato direttamente dalla high school, senza mettere piede al college. Prima di lui c’erano stati Kobe Bryant e Kevin Garnett, per citarne altri che hanno scritto pagine indelebili della storia del gioco. Questo non vuol dire che un liceale possa essere automaticamente pronto per il professionismo; per un Kevin Garnett ci sono almeno dieci Kwame Brown (scelto prima di tutti al draft 2001 e tutt’altro che pronto per la NBA). Però è altrettanto vero che, in molti casi, un solo anno di college fa la differenza più per gli atenei (sul piano economico), che per i giocatori stessi (in termini di crescita). Atleti come Williamson, Simmons o Kyrie Irving (solo undici partite con Duke nel 2010/11, prima che i Cleveland Cavaliers spendessero per lui la first overall pick) vengono reclutati con il pretesto di una borsa di studio che con lo studio non avrà mai niente a che fare; quale percorso formativo si potrà mai compiere in otto mesi scarsi, con il tempo speso in palestra che supera di gran lunga quello trascorso fra i banchi? In attesa di riempirsi le tasche in NBA, cercano di ‘arrangiarsi’ con la media voti e, soprattutto, di evitare infortuni che potrebbero comprometterne la carriera. Nel frattempo, le università di appartenenza incassano cifre astronomiche alle loro spalle. Ecco quindi farsi sempre più comprensibile il concetto espresso qualche mese fa da Scottie Pippen, il quale aveva consigliato a Zion di smettere di giocare e prepararsi per il draft.
I colossali paradossi che caratterizzano la pallacanestro universitaria hanno spinto finalmente la NBA a muovere i primi passi verso l’abbassamento a diciotto anni (contro i diciannove attuali) dell’età minima per dichiararsi eleggibili per una possibile scelta. Una rivoluzione che riporterebbe le lancette al 2005, ultima volta in cui vennero selezionati anche i giocatori liceali, che ridimensionerebbe non poco il concetto di ‘one and done’ e che darebbe un forte scossone all’intoccabile NCAA. Un’istituzione che tanto ci ha divertito (e che tanto ci divertirà) con i suoi colori, le sue tradizioni, le sue rivalità e le sue storie, ma che troppo ha lucrato su famiglie in difficoltà e sui ‘nobili princìpi’ che da sempre animano lo sport americano.