Svetislav Pešić, coach del Barcelona, ne ha indispettiti parecchi quando ha dichiarato “quello NBA non è basket”. Personalmente credo che due canestri messi a 3 metri e 5 centimetri dal cielo ed un pallone che rimbalza già facciano “basket”, però Pešić è uno dei grandi europei, e come si fa a contraddirlo? Anche se era il coach della meravigliosa Jugoslavia junior di Bormio che nel 1987 battè gli Stati Uniti grazie all’11 su 13 da tre punti di Toni Kukoć, anche se da giocatore faceva parte del superbo Bosna di Mirza Delibašić che puntava a fare un punto in più degli avversari, “Kari” Pešić è parte della storia del basket continentale e non può essere messo in discussione. Però c’è una cosa che dall’NBA importerei subito in Europa: il senso di rispetto per gli avversari. E’ sempre stato così, mentre in Europa si lanciavano in campo accendini e monete oltreoceano a Boston i tifosi cantavano “Beat L.A.” ai Sixers vincitori, augurandogli di vincere il titolo.
L’ultima dimostrazione di sportività ha visto accendere i riflettori su un campione europeo, Dirk Nowitzki: nei secondi finali della sconfitta dei suoi Mavericks contro i Clippers, l’allenatore locale “Doc” Rivers ha chiamato un timeout, si è avvicinato al tavolo, chiedendo il microfono al “public announcer” e quindi ha esortato i tifosi. ”Dirk! Dirk! Let’s go” ha gridato, puntando il dito verso l’asso tedesco mentre invitata i presenti allo Staples Center ad alzarsi in piedi per tributare all’avversario la più calorosa delle “standing ovation”.
“Uno dei più grandi di sempre, Dirk Nowitzki” ha aggiunto, mentre il numero 41 sorrideva con umiltà e salutava il pubblico. A quel punto i giocatori dei Clippers si sono avvicinati all’avversario congratulandosi con lui per l’incredibile carriera. Poco importava il risultato finale, Nowitzki ha continuato a sorridere anche quando gli è stato consegnato il pallone della partita. Era la numero 1,500 della sua carriera, un numero che lo pone al quarto posto tra gli atleti con il maggior numero di incontri disputati, dietro a Robert Parish, Kareem Abdul-Jabbar e John Stockton.
Non è la prima volta che il pubblico di un’arena in questa stagione dimostra il suo rispetto ed il suo affetto a “Wunderdirk”: un trattamento speciale gli era già stato riservato dai tifosi di Charlotte (con il loro “We Want Dirk”), di Boston, di Indiana e di New York.
Ma al di là dei record, del gioco, di ogni considerazione tecnica (sono il primo a vedere con fastidio la proliferazione delle conclusioni da dietro l’arco), quello di coach Rivers rimane un gesto splendido, un tributo ad un avversario nel momento in cui la sua carriera volge al termine ed è giusto riconoscere quanto il suo apporto abbia contribuito a rendere l’NBA – se non il basket NBA, almeno secondo Pešić – un luogo migliore.