Il Michigan non sorprende a marzo. L’inverno è quasi passato ma i suoi colpi di coda possono far penare molto un italiano che si avventura per la prima volta da quelle parti. Ma appena si entra nella Little Caesars Arena il clima è ben diverso. L’atmosfera di colpo diventa più calda, nell’aria si respira la passione e il trasporto del pubblico della “Motown” per lo sport.
Un attaccamento viscerale che alle partite degli amatissimi Red Wings si trasformava in un’autentica funzione religiosa arricchita dal dono di un incolpevole polpo gettato sul ghiaccio sia come dono agli “dei del hockey” che come avvertimento agli avversari.
Il pubblico del basket è meno macabro ma non meno appassionato, basti ricordare la famosissima rissa che coinvolse Ron Artest all’allora Palace di Auburn Hills.
Tutta questa affezione si era un po’ annacquata negli ultimi anni, la squadra aveva inanellato una serie di stagioni deludenti, non solo per i risultati scadenti ma anche per un atteggiamento sul parquet che strideva con la storia della città di Detroit, una storia forgiata dal carattere dei “blue collar” e che ancora ricorda la squadra di Chuck Daly: intensi all’inverosimile, spigolosi, in una parola cattivi.
Quest’anno la squadra sta risvegliando il pubblico dal torpore dell’ era Van Gundy; dopo le difficoltà incontrate a dicembre e gennaio i Pistons hanno invertito la rotta e, in questo momento, sono la squadra più calda non solo della Eastern Conference, ma dell’intera Lega.
Con l’invidiabile record di 10 vittorie nelle ultime 13 partite, i Pistons si sono risollevati dalla mediocrità e sono entrati stabilmente in zona Playoffs. Anzi sono addirittura saliti al sesto posto a Est, davanti a Brooklyn e dietro ai balbettanti e incomprensibili Celtics.
Cos’è accaduto? Semplice, hanno perso contro San Antonio.
Sembra una forzatura – anche perché i segnali di ripresa erano già visibili in precedenza a – ma a sentire Casey la partita di San Antonio è la chiave del ritrovato spirito di una squadra che appare trasformata e avviata verso la qualificazione ai playoffs 2019: “La sconfitta con gli Spurs ci ha dato una bella frustata sul didietro. Gli Spurs hanno giocato con un livello di fisicità a cui non eravamo preparati. Il loro approccio ci ha svegliato e obbligato a rivedere il nostro se vogliamo arrivare ai Playoffs”.
Un approccio che ha consentito ai Pistons di vincere contro i fortissimi Raptors, seppur orfani di Kawhi Leonard. Sugli spalti della L.C.A il pubblico sembrava quello che, solo qualche anno fa, applaudiva le stoppate di Ben e Rasheed Wallace, le triple di Chauncey Billups e Richard Hamilton, il “right way” di Larry Brown. I tifosi hanno soprattutto mostrato il loro apprezzamento per la caparbietà nel non mollare, sia quando i Pistons erano sotto di 11 nel terzo quarto, sia quando a due minuti dal termine i Raptors conducevano per 107 a 102.
Una partita e una vittoria speciale per l’ex Casey, ma è riduttivo circoscrivere alle motivazioni personali del coach la vittoria contro Toronto. Lo stesso Casey ha inserito il successo in un discorso più ampio: “Stiamo costruendo qualcosa d’importante, una nuova identità. E queste grandi vittorie sono importanti per arrivare all’obiettivo. La partita contro Toronto era uno scontro di playoffs, e questo sarà l’approccio che avremo nella prossima postseason.”
Un’identità nuova che si palesa in un attacco nettamente più armonioso, con gli isolamenti per Blake Griffin che non sono più eccessivi come nella prima parte di stagione, e le responsabilità sono molto più distribuite. Il risultato è che tutti i giocatori agli ordini di coach Casey stanno attraversando il loro miglior periodo in termini realizzativi.
Griffin sta disputando “solo” la miglior stagione in carriera. Oltre ai quasi 26 punti di media (che comunque non sono pochi), sorprende come abbia saputo trasformare il suo gioco, aggiungendo un’ efficacia invidiabile nel tiro dalla distanza (36% da tre punti in stagione) e, soprattutto, diventando una vera “point forward” (quasi 7 assists a partita).
Reggie Jackson sembra tornato a quei livelli che gli avevano permesso di firmare un ricco rinnovo contrattuale, e ha costantemente affiancato Griffin come catalizzatore dell’attacco. Nell’ultimo mese Reggie ha segnato 19 punti, distribuito 5 assists, tirato con le ottime percentuali (50% dal campo e 47% dall’arco), e agito con successo nella duplice veste di realizzatore e di creatore di occasioni con la sua efficacia nel pick and roll.
Proprio dal pick and roll sono arrivati la stragrande maggioranza di Andre Drummond. Dopo lo stop imposto dal “concussion protocol”, il centro da UConn sta tenendo una media di oltre 21 punti, 16 rimbalzi, 2 stoppate di media e un eccellente 66% dal campo, cifre che lo proiettano come il miglior centro dell’intera NBA.
Il merito è da ascrivere essenzialmente a Casey, l’allenatore chiamato nel Michigan per curare un gruppo talentuoso ma troppo “underperforming”. Un allenatore che solo pochi mesi prima della chiamata del proprietario Tom Gores aveva vinto il premio di “ Coach of the Year”, ma che i Toronto Raptors avevano comunque deciso di licenziare per ambire a traguardi più ambiziosi. Con il costante e certosino lavoro che lo ha contraddistinto anche in Canada, Casey ha tranquillizzato l’ambiente, ha fatto leva sulla voglia di rivincita di molti dei suoi giocatori, e ha trovato quell’alchimia che è propria delle squadre vincenti.
La squadra è rinata, ha ritrovato fiducia ed entusiasmo, e si presenta così in forma fisicamente che nessuno, neanche i Bucks e i Raptors, vorrà incontrarli nella postseason.