Quando Darrell Duppa fondò la città alla foce dei fiumi Salt e Gila, le diede il nome di Phoenix, “fenice”, per ricordare che il nuovo insediamento nasceva – come l’araba fenice” – dalle ceneri della più antica Hohokam. Oggi la squadra di Phoenix fatica terribilmente a rinascere dalle proprie ceneri.
E dire che sembra passato così poco tempo da quando il “Seven Seconds or Less” metteva a ferro e fuoco la lega, Mike D’Antoni teneva il timone a bordo campo e Steven Nash, Shawn Marion e Amar’e Stoudemire evoluivano a 100 all’ora. Dal momento in cui l’allora general manager Steve Kerr decise di scambiare Shawn Marion con Shaquille O’Neal le cose sono andate sempre peggio: Mike D’Antoni ha lasciato Phoenix e la squadra – se si eccettuano un paio di stagioni decenti agli ordini di Alvin Gentry nel 2010 e di Jeff Hornacek nel 2014 – ha sempre arrancato.
Dopo aver contato su DUE soli general manager in quasi quarant’anni (la coppia padre/figlio formata Jerry e Bryan Colangelo), nel giro di 13 anni in Arizona hanno visto sette facce nuove, un numero che testimonia eloquentemente sulla scarsa chiarezza del “programma”. Errori di valutazione negli scambi, difficoltà nelle scelte nonostante le chiamate sempre piuttosto alte. Un proprietario, Robert Sarver, che spesso oltrepassa l’invisibile confine tra manager e tifoso e danneggia irreparabilmente i rapporti con e tra i suoi dipendenti. Come la volta in cui ha riempito di capre l’ufficio dell’allora GM Ryan McDonough per esprimergli la voglia di vedere un grande giocatore (il termine inglese per “capra” è “goat” che è anche l’acronimo di “greatest of all time”) indossare la maglia dei Suns. Il risultato è stato disastroso: le capre hanno lasciato nell’ufficio cospicui segni della propria presenza ed in qualche modo hanno preconizzato il destino di McDonough, “silurato” nell’ottobre scorso per lasciar spazio alla coppia Trevor Bukstein/James Jones.
E’ dal 2015 che i Suns non raggiungono nemmeno quota 25 vittorie in stagione, eppure sembrava che questa fosse la volta buona: un Devin Booker maturo e convinto aveva dichiarato di puntare ai playoffs. A lui si aggiungevano Josh Jackson, atteso all’esplosione dopo un campionato da rookie caratterizzato da luci ed ombre, e Deandre Ayton, prima scelta assoluta al draft del giugno scorso. E invece, anche questa volta i Suns si sono oscurati nell’ennesima eclisse.
Jackson, oltre a non mostrare miglioramenti in attacco, ha fatto segnare una flessione in difesa, la fase che era considerata il suo cavallo di battaglia; Devin Booker continua a soffrire in difesa, Ayton sta facendo benino ma patisce gli alti ritmi e non ha ancora fornito alla squadra l’intimidazione che ci si sarebbe potuti aspettare. Anche questo campionato alla fine si è rivelato un incubo, culminato con le 17 sconfitte consecutive, triste record di franchigia. A interrompere la “striscia della vergogna” un successo su Miami al quale hanno fatto seguito la sconfitta con i Pelicans e tre successi su Lakers, Knicks e soprattutto sui lanciatissimi Bucks…a testimonianza che il potenziale sarebbe enorme. Il problema principale – oltre alla bassa età media – è sicuramente legato alla bassa produttività in difesa, come testimoniato dalle graduatorie che vedono Phoenix al ventinovesimo posto, davanti agli sgangherati Cavs. A mettere un po’ di pepe nella difesa dei Suns ci hanno provato in tanti: Jeff Hornacek, Earl Watson e Jay Triano sono caduti davanti all’insoddisfazione di Sarver, mentre si sussurra che anche coach Igor Kokoškov stia perdendo tutto il credito maturato con le sue imprese europee alla guida della nazionale slovena.
Insomma: un front office ballerino e legato agli umori del proprietario, allenatori e manager consci del ticchettio dell’orologio nel conto alla rovescia verso il licenziamento, una squadra ricca di giovani la cui inesperienza si specchia in una fase difensiva disastrosa…l’araba fenice dell’Arizona sembra aver bisogno di parecchi aggiustamenti prima di poter invertire una tendenza che si è cristallizzata nell’ennesimo campionato al fondo della Western Conference.