Dopo un’estenuante discesa agli inferi, i Brooklyn Nets sono pronti a riveder le stelle. Ad accompagnarli nel regno dei dannati non era stato Virgilio, bensì la ‘premiata ditta’ Mikhail Prokhorov – Billy King. La loro strada e quella degli allora New Jersey Nets si erano incrociate nel 2010. Prokhorov, controverso oligarca russo, cercava più visibilità possibile per alimentare le sue ambizioni politiche (prenderà quasi l’8% alle elezioni presidenziali del 2012). Tra i vari investimenti, aveva acquistato la maggioranza della franchigia e il 45% della proprietà del futuro Barclays Center. Presentandosi con la solenne promessa (mai mantenuta): “Se non vinciamo il titolo entro cinque anni, mi sposo”, aveva avviato un colossale progetto di ‘restyling’ per gli ormai logori Nets. Una delle sue prime mosse era stata l’assunzione di King (ex-dirigente dei Sixers, noto per aver scatenato una rivolta tentando di aprire un casinò sul lungofiume) per sostituire il leggendario Rod Thorn nelle vesti di general manager.

Con l’appoggio del ‘testimonial d’eccezione’ Jay-Z (socio di minoranza della franchigia), Prokhorov e King intendevano trasformare quelli che, dal 2012, sarebbero diventati i Brooklyn Nets in un modello vincente, sia in termini di marketing, sia sul piano sportivo. Ecco dunque gli innesti di Deron Williams, Gerald Wallace e Joe Johnson, all’epoca stelle affermate. Ma in una Eastern Conferene dominata dai Miami Heat di LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh, per arrivare fino in fondo serviva ben altro. Il ‘colpo ad effetto’ era arrivato il giorno del draft 2013, quando il ‘diabolico’ Danny Ainge, plenipotenziario dei Boston Celtics, aveva concordato con la ‘strana coppia’ una trade che avrebbe riscritto il futuro delle due franchigie: a Boston sarebbero finiti cinque giocatori (tra cui Gerald Wallace) e quattro prime scelte future, al Barclays Center avrebbero invece giocato Kevin Garnett, Paul Pierce e Jason Terry. Mentre Prokhorov gongolava per i trionfi che sarebbero certamente piovuti a grappoli, Ainge ‘scappava con la cassa’. Il sogno di un squadra da titolo, a Brooklyn, era durato la miseria di una stagione, finché LeBron e compagni non avevano asfaltato gli ‘anzianotti’ di coach Jason Kidd al secondo turno playoff. Nel frattempo, i Celtics avevano chiuso rapidamente l’era dei ‘Big Three’ e si erano assicurati, con le scelte ‘regalate’ dai Nets, i servigi di Jaylen Brown, Jayson Tatum e Kyrie Irving (arrivato da Cleveland in cambio, tra l’altro, della scelta 2018). I grandi veterani erano scappati al più presto da Brooklyn, lasciando Prokhorov alle prese con i suoi obblighi (?) coniugali e la franchigia sulla soglia del baratro.
Per riemergere dagli abissi si è dovuto attendere l’inizio del 2016. Resosi conto (con notevole ritardo) che il suo approccio al nuovo business non era stato dei migliori, Prokhorov aveva optato per una vigorosa ‘pulizia‘. Deron Williams e Joe Johnson tagliati, coach Lionel Hollins e Billy King silurati senza appello e carta bianca al nuovo general manager, Sean Marks. Primo neozelandese a giocare in NBA, Marks aveva vinto due titoli con i San Antonio Spurs: uno da ultima delle riserve (2005) e uno da assistente allenatore (2014). Bisognava ricostruire da zero, e l’unico modo per farlo era affidarsi a un giovane dirigente (Marks) e a un giovane allenatore, Kenny Atkinson, già assistente di Mike Budenholzer ad Atlanta. Il processo sarebbe stato lungo ma, come cantava Daniele Silvestri, “più in basso di così, c’è solo da scavare”.
Con un margine di manovra pressoché nullo, visti i pochi asset a disposizione, il nuovo corso ha dovuto assemblare il roster ‘raccattando dalla spazzatura’. Marks è andato a cercare quei giocatori che, per un motivo o per un altro, erano di troppo nelle rispettive franchigie, e Atkinson si è prodigato per tirar fuori il meglio da ognuno di loro. Nell’estate 2016 sono arrivati Joe Harris e Spencer Dinwiddie, reduci da due stagioni passate più in D-League che in NBA. Al draft, con la scelta numero 20 (ottenuta da Indiana), è stato scelto Caris LeVert. L’anno successivo, ecco gli innesti di DeMarre Carroll, Allen Crabbe e D’Angelo Russell. Quest’ultimo è arrivato (insieme a TImofey Mozgov), in cambio di Brook Lopez e della ventisettesima scelta (poi tramutatasi in Kyle Kuzma), dai Los Angeles Lakers. I suoi primi due anni in gialloviola erano stati pieni di alti e bassi e la dirigenza, intenzionata a chiamare il playmaker Lonzo Ball all’imminente draft, aveva deciso di ‘sacrificarlo’ per liberarsi anche del ‘contrattone’ di Mozgov. L’ennesima scelta al tardo primo giro, ottenuta tramite scambi precedenti (la ventiduesima, arrivata da Washington), è stata spesa per il centro Jarrett Allen. Le fondamenta su cui costruire i Nets del futuro erano finalmente posate. A suggellare definitivamente il ‘cambio di rotta’, la cessione del 49% della proprietà, da Mikhail Prokhorov a Joseph Tsai, co-fondatore del gruppo Alibaba.

Il 2017/18 è stato un anno di ‘assestamento’, chiuso ancora una volta nelle retrovie ma, in questa stagione, Brooklyn è finalmente ‘risorta’; 42 vittorie e 40 sconfitte, sesto piazzamento a Est e ritorno ai playoff dopo quattro anni di assenza. Joe Harris e Spencer Dinwiddie, arrivati come ‘scarti’ di Cleveland Cavaliers e Chicago Bulls, si sono rivelati colonne portanti di una squadra decisamente più competitiva. Jarrett Allen è cresciuto esponenzialmente, diventando un ‘intimidatore’ di primissimo livello (chiedere, per conferma, a LeBron James, Giannis Antetokounmpo e Blake Griffin, fermati da alcune memorabili stoppate del numero 31 durante la stagione). Caris LeVert è partito alla grande, ma un bruttissimo infortunio alla gamba destra lo ha costretto a saltare 42 partite (poteva andare molto peggio). L’uomo-copertina di questa ‘rinascita’, però, è indubbiamente D’Angelo Russell. Mentre i suoi ‘vecchi’ Lakers affondavano, il talento da Ohio State si consacrava; 21.1 punti di media, giocate decisive, leadership. La prima convocazione in carriera all’All-Star Game è stata una naturale conseguenza, così come i rimpianti (giustificati fino a un certo punto, visti i contesti differenti) dei tifosi gialloviola. Ora, i Brooklyn Nets hanno una dirigenza ‘illuminata’, un allenatore con le idee chiare, un roster giovane e ‘operaio’ e una stella, con lo spazio salariale sufficiente per provare ad aggiungerne altre. Forse è il momento giusto per rispolverare quel vecchio slogan, coniato ai tempi del trasferimento al Barclays Center: “Hello, Brooklyn!”.