Come si fa a discutere un’icona come Sergio Tavčar? Impossibile: anche nell’improbabile caso avesse torto, il credito di popolarità e di competenza che si è guadagnato negli ultimi cinquant’anni ti mettono in una posizione di inferiorità impossibile da sovvertire. Ecco perché da oggi odio Raffaele Baldini. Voglio dire, non lo odio davvero, ma mi domando perché quando ha pubblicato l’ultimo articolo di Sergio si sia premurato di “taggarlo” nel mio orticello, in quella pagina NBA che già fatico a difendere dai Savonarola delle crociate anti-passi, anti-tiro da tre e anti-pick and roll. Oddio, difendere…senza troppa convinzione… In quanto figlio di un basket più sobrio (e vecchio, lo so) non sprizzo felicità nel vedere come il basket d’oltreoceano si sia…evoluto in una “sparakkjazja” di giordaniana memoria, in un pedissequo culto del gioco a due e in uno sprint in cui il palleggio diventa un’opzione, non la regola…ma forse vale la pena di approfondire, di provare a capire.
Sull’infrazione di passi: è impossibile pretendere che un 2 e 10 prenda la palla correndo a 30 all’ora e la metta a terra prima di aver fatto un passo. Alla terza ricezione in corsa mentre il gigantone prova a frenare per evitare l’infrazione salterebbero legamenti, valvole e tiranti delle ginocchia, ed è ovvio che l’NBA cerchi di preservare un materiale umano decisamente più fragile rispetto a quello di trent’anni fa.
Sul pick and roll: lo ritengo uno delle più belle espressioni del Basket. Un momento di comunione mentale tra playmaker e centro nel quale l’intesa genera giochi a due degni della poesia di Umberto Saba. Se poi lo effettui tre volte di fila, però, diventa noioso. Se lo giochi 20 volte a partita, diventa una noia cosmica.
Sul tiro da tre: anche qui d’accordo con Sergio, ma c’è un ma. Tavčar ama – come me – il basket anni Settanta e Ottanta. E’ chiaro però che l’atletismo oggi è cento volte superiore, quelle braccia da due metri e mezzo chiudono le linee di passaggio e alla fine un allenatore è più sicuro se per l’ultima azione può mettere la palla in mano al suo uomo migliore e dirgli “fai tu”. Non solo: attaccando il canestro prima dello scadere – come chiede a gran voce Sergio – si rischierebbe di lasciare qualche frazione di secondo agli avversari, tempo sufficiente per ribaltare il risultato Ecco quindi che il “tiro iconico” (o “azione del tutto nauseabonda”) diventa la norma, trova una giustificazione che sicuramente agli amanti di un “basket intelligente”, di Havlicek, Russell e Cousy non basta, ma che è l’unica attuabile nel basket odierno.
Questo non significa che io creda che Sergio Tavčar abbia torto, ma solamente che il suo senso estetico del basket – che è peraltro comprensibile e condivisibile – lo spinge a conclusioni opposte rispetto a quelle che lo hanno spinto ad amare mostri sacri del calibro di Krešimir Ćosić. Perché se è vero che “Krešo” sulla ricezione non commetteva infrazione di passi, è anche vero che negli anni Sessanta rappresentava una rivoluzione che in tanti – Tavčar escluso – videro col fumo negli occhi.
Sergio nella sua analisi “filtra” tutto il basket col setaccio degli anni Settanta e Ottanta, quando invece ogni realtà sportiva andrebbe inserita nel contesto in cui si verifica. Perché così come chi amava Larry Bird e Magic Johnson oggi critica i Kevin Durant o i Damian Lillard, un vecchio tifoso degli Anni Sessanta potrebbe dire “Cousy e Russell sì che erano basket, le squadre anni Settanta giocavano in modo stupido”. Lo disse anche John Havlicek, del resto, paragonando ai Celtics degli anni Sessanta la sua squadra dei futuri campioni 1974… Pablo Laso in una spettacolare intervista (disponibile anche su Youtube, la consiglio vivamente) ad un reporter che gli chiedeva del “basket moderno” ha risposto: “Se io facessi giocare alla mia squadra lo stesso basket di trent’anni fa, farei…mierda” (ho lasciato il termine usato dal flemmatico Pablo). Ha continuato: “il Basket moderno è che domani avrò un gioco diverso da quello d’oggi, e questa è la grandezza del nostro sport”.
E del resto Krešimir Ćosić era l’evoluzione di Zvonko Petričević, Mirza Delibašić era l’evoluzione di Dragoslav Ražnatovic ed in generale la “zlata generacija” era l’evoluzione delle selezioni che Aleksandar Nikolić aveva plasmato dalle stalle alle stelle. Pur amando le squadre di Radivoj Korać e Ivo Daneu non si può restare legati ad esse solo perché quelli arrivati negli anni Settanta ed Ottanta erano più atletici, tecnici, “cattivi”. Lo stesso discorso vale per l’NBA: forse il livello di trent’anni fa rappresentava il “giusto mix” di velocità e tecnica, forse oggi è troppo rapido e meno godibile…ma, come dice Pablo Laso, “Baloncesto es Baloncesto”…due canestri ed un pallone che rimbalza, e chi se ne frega se a giocare sono donne, uomini, bimbi, disabili…
Ecco, forse ciò che più mi dispiace è che vorrei che Tavčar mi accompagnasse nel comprendere meglio il basket professionistico, invece di limitarsi al “gran rifiuto”…vorrei che interpretasse, invece di schifare…vorrei che il mio idolo cronistico non mi apparisse…anacronistico…Ma poi penso che sia giusto che segua il suo credo senza snaturarsi. E così mi accontento delle cose che ci accomunano: entrambi odiamo il “basket urlato”, amiamo Larry Bird, John Havlicek, Krešimir Ćosić e Mirza Delibašić, siamo convinti che “Kari” Pešić sia il peggior allenatore delle Final Four di Eurolega, preghiamo entrambi il buon Dio affinchè conceda tutta la salute possibile a Šarūnas Jasikevičius…e allora come posso arrabbiarmi con lui? E’ più facile arrabbiarmi con Raffaele Baldini per aver scritto “Tavcar” invece di “Tavčar”. Sergio ed io a queste cose ci teniamo.