Il 1968 fu un anno di enorme fermento negli Stati Uniti e nel mondo: rivolte studentesche, rivendicazioni sociali, lotte per i diritti civili, amore libero, il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos sul podio alle olimpiadi di Città del Messico, l’inizio della fase più terribile della guerra in Vietnam.
Anche nella NBA che stava per iniziare la sua stagione si respirava aria di cambiamento. I Boston Celtics avevano dominato in lungo e in largo per oltre due lustri, portando a casa 10 titoli su 12, ma gli anni passano per tutti e i leader di quella squadra, Bill Russell e Sam Jones erano ad un passo dal ritiro e solo l’anno precedente i biancoverdi avevano dovuto compiere un miracolo per rimontare da 1-3 contro i 76ers prima di superare i Lakers in finale. Proprio i Losangelini si erano appena accaparrati Wilt Chamberlain, per andare a formare un terzetto da sogno insieme a Jerry West ed Elgin Baylor, in grado almeno sulla carta di lottare per l’anello con i favori del pronostico.
La regular season sembrò dar ragione a chi aveva dato per morto il Trifoglio; con Bill Russell nel doppio ruolo di giocatore ed allenatore, trentacinquenne e alle prese con un ginocchio malandato, ben 4 squadre fecero meglio: i Baltimore Bullets dello straripante Wes Unseld, i 76ers che, pur privi del fenomeno-Wilt, cavalcarono con successo Billy Cunningham, e Hal Greer; poi naturalmente i Lakers ed infine i New York Knicks.
I playoffs premiarono Los Angeles ad Ovest, forse con qualche patema più del necessario, come quando gli uomini di coach Van Breda Kolff dovettero rimontare da 0-2 al primo turno contro i San Francisco Warriors; la finale di division fu invece una passeggiata, 4-1 agli Atlanta Hawks. Insospettatamente speculare il cammino di Boston, considerata un’outsider: comodo 4-1 ai 76ers e poi un più complicato 4-2 ai Knicks grazie a due vittorie al fotofinish in gara 4 e 6.
Il 23 Aprile era dunque “apparecchiata” la finale, magari non la più attesa ma certamente la più prestigiosa: questa volta però nessuno o quasi pensava che i biancoverdi avrebbero potuto superare i rampanti avversari, rinforzati dal formidabile Chamberlain, certamente non più inarrestabile come lo era stato nella prima parte della carriera (si sarebbe ritirato 4 anni dopo i fatti che stiamo raccontando), ma pur sempre capace di sfornare medie in stagione di 20.5 punti e oltre 21 rimbalzi. A dar forza ai pronostici della vigilia arrivarono subito due vittorie casalinghe per i Lakers: Jerry West, in gran spolvero, approfittò della decisione di Russell di non raddoppiarlo e fece sfracelli, mettendo a referto rispettivamente 53 e 41 punti; dall’altro lato Havlicek fece 37 e 43, ma non bastò e i lacustri la spuntarono per 120-118 e 118-112. Sembrarono un segno del destino anche le pessime prestazioni balistiche di Wilt, peraltro sempre dominante a rimbalzo: se Los Angeles poteva vincere nonostante i soli 19 punti totali in due partite del suo centro titolare, allora i giochi erano davvero fatti.
Occorreva un miracolo ai biancoverdi e il Garden ne ravvivò il vecchio spirito guerriero: West fu omaggiato maggiori attenzioni ed il “fatturato” di “Mr. Logo”, limitato a 24 punti in gara 3, scese di un buon 50%; Boston, nonostante un fastidioso colpo ad un occhio subito durante il terzo periodo dal giocatore più in forma, “Hondo” Havlicek, la spuntò nel finale andando a vincere 111-105. la rimonta fu completata due giorni dopo in una partita dura ed equilibratissima: a 15 secondi dalla conclusione Los Angeles era in vantaggio per 88-87 con la palla in mano ma Emmette Bryant fece forse la cosa più importante della sua carriera, rubando una palla fondamentale: Sam Jones sbagliò il jumper, ma il successivo rimbalzo offensivo permise un timeout con 6 secondi sul cronometro. Havlicek chiamò una giocata provata quasi per caso in un allenamento nel quale il coach era in ritardo e Sam Jones ricevette palla, poi, cadendo, mise un tiro improbabile che si infilò dopo aver ballonzolato sul ferro.
Gara 5 venne vinta di forza dai Lakers, carichi come molle nel tentativo di vendicare lo 0-2 in trasferta; Chamberlain annientò Russell, West si ripropose in versione bombardiere e anche Johnny Egan si unì al banchetto con 23 punti per un netto 117-104. Tutto finito? neanche per sogno, perchè al “ritorno” al Garden Russell restituì la pariglia a “The Stilt” limitandolo a 2 punti mentre West finì acciaccato: 99-90 Celtics e tutto rimandato alla “bella” di Los Angeles, dove la storia si ammanta di leggenda: sicuro di sfatare finalmente il tabù, Jeff Kent Cooke, proprietario della franchigia gialloviola, peccò di troppa fiducia e pensò bene di far appendere migliaia di palloncini sul soffitto del Forum, per liberarli alla fine dell’incontro a festeggiare il trionfo dei suoi ragazzi. Jerry West, quando fu informato della “carnevalata”, si infuriò perchè sapeva che per gli orgogliosi campioni in biancoverde sarebbe stata una motivazione addizionale della quale non si sentiva veramente il bisogno.
I Celtics videro i palloncini ed infilarono 8 dei primi 10 tiri a disposizione, giocando ad un ritmo indiavolato che li portò fino ad un massimo vantaggio di 17 lunghezze. Non poteva finire così, senza lottare, non poteva non lottare Jerry West che salì in cattedra e guidò i suoi fino al -9 (94-103) a 6 minuti dalla sirena, ma a quel punto Chamberlain ricadde malamente dopo un rimbalzo difensivo, sentì un dolore al ginocchio e chiese di essere sostituito. Van Breda Kolff mandò in campo Mel Counts e i suoi ragazzi, inaspettatamente, non persero colpi, anzi si fecero sempre più sotto tanto che in tre minuti si portarono ad una sola lunghezza. In quel momento si consumò un altro accadimento che entrò nella leggenda di quella serie: Chamberlain chiese di rientrare ma l’allenatore, indispettito per l’approccio non esattamente leonino del suo centro durante tutta la serie, gli disse di sedersi perchè la squadra stava giocando più che bene in sua assenza. Purtroppo per entrambi, i Lakers non presero in mano l’inerzia della partita e in un finale convulso soccombettero per 108-106, con i palloncini ancora ben saldi sotto al tetto del Forum. West, eroico per tutte e sette le partite, era distrutto e non bastò a consolarlo il meritato premio di MVP di quelle finali, unico caso nella storia in cui il riconoscimento venne dato ad un giocatore sconfitto. Era finita ancora una volta con Boston sul tetto del mondo e ai gialloviola rimanevano le recriminazioni per la controversa gestione degli ultimi minuti senza Chamberlain e per la marea di errori al tiro libero (ben 19 su 47).
La storia sarebbe andata avanti, Los Angeles avrebbe esultato per un titolo solo tre anni dopo, ironia della sorte grazie a coach Bill Sharman, ex stella dei Celtics, mentre i biancoverdi impiegarono 5 anni per tornare alla vittoria. Il ciclo di Russell era finito quella sera, ma era finito con l’ultimo ruggito di un gruppo irripetibile.