E’ noto come negli Stati Uniti i maggiori sport di squadra siano regolati da una peculiare organizzazione, compreso ovviamente il basket: lista “bloccata” di franchigie, niente retrocessioni ed una serie di accorgimenti atti a mantenere vivo l’interesse impedendo l’egemonia delle società potenzialmente più ricche. Il primo e fondamentale ingranaggio è il meccanismo del draft che permette di scegliere i migliori prospetti con una turnazione inversa rispetto ai risultati ottenuti l’anno precedente, “premiando” in questo modo i meno forti e riequilibrando la situazione per i campionati successivi. In questo senso le università hanno un ruolo assolutamente predominante, fungendo da vetrina e bacino primario per pescare i migliori prospetti.
Alcune realtà hanno conseguito negli anni un prestigio particolare e Duke è senz’altro un’eccellenza, basti pensare che nel panorama sterminato delle università statunitensi solo in 3 hanno fatto meglio dei Blue Devils per numero di giocatori “regalati” alla NBA: Kentucky, UCLA e North Carolina. Alla vigilia dell’ultimo draft gli atleti passati al “piano di sopra” erano ben 81 e dalla prossima stagione saranno 84.
Il capostipite di questa lunga lista fu Dick Groat, talentuosa guardia di 183 centimetri, che i Fort Wayne Pistons si accaparrarono nel 1952 con la terza scelta dopo una stagione NCAA in cui mise a segno 26 punti di media. Giocò un solo anno mettendo in mostra ottimi numeri e risultando secondo marcatore dopo il grande Larry Foust. Sembrerebbe l’inizio di una sfolgorante carriera, e allora perchè le cronache baskettare non si occuperanno più di lui? Come spesso accadeva in quegli anni lontani, le competenze degli atleti erano piuttosto trasversali e non era raro che si passasse con una certa disinvoltura da basket a football o baseball e viceversa. Groat, perlappunto, fu uno dei 13 eletti che giocarono in NBA e MLS e fu proprio con mazza e guantoni, dopo aver abbandonato la palla a spicchi, che diede il meglio: 5 volte All Star e due volte vincitore delle World Series. Dick fu l’unico Blue Devil a passare di grado negli anni ’50 e anche nei decenni immediatamente successivi i numeri non si impennarono nonostante alcuni elementi dalla lunga ed onorata carriera come Jeff Mullins (1964), Jack Marin (1966), Mike Gminski (1980) e Danny Ferry (1989). Fu dalla metà degli anni ’90 che iniziò la crescita esponenziale degli atleti chiamati al grande salto e tra questi va ricordato senz’altro Grant Hill, 7 volte All star, inserito nella Hall of Fame nel 2018 e protagonista di una lunghissima carriera da professionista, terminata a 40 anni nel 2013 dopo oltre 1000 partite giocate ed oltre 17000 punti messi a segno.
A cavallo del nuovo millennio, tra il 1999 e il 2004 arrivò una vera e propria infornata di talenti made in Duke: Elton Brand, Corey Maggette, Shane Battier, Carlos Boozer, Mike Dunleavy, tutti giocatori capaci di crearsi solidissime carriere da professionisti. Il trend non accenna tuttora a rallentare, tanto è vero che Zion Williamson incontrerà, durante la prossima stagione, ben 28 colleghi che hanno calcato lo steso parquet di Durham, in Carolina del Nord, dai compagni di squadra nell’ultino torneo NCAA, R.J. Barrett e Cameron Reddish, ai giovani come Marvin Bagley III e Jayson Tatum fino ai veterani Luol Deng e Kyrie Irving, tutti “figli” del leggendario coach Mike Krzyzewski.