Gary Dwayne Payton nasce ad Oakland il 23 Luglio del 1968 da Annie ad Al; il basket è già ben presente in famiglia grazie al babbo, ex giocatore ed allenatore di high school. La famiglia tira avanti dignitosamente ma non si può scialare e, soprattutto, la preoccupazione più grande è quella di tener lontano quel ragazzino vivace dai brutti giri dei sobborghi di Oakland, che non è esattamente Disneyland. Per questo il padre si ingegna a guadagnare qualche dollaro in più: lavora come cuoco in due ristoranti e, part time, in una conservificio; intervistato molti anni dopo spiegherà il perchè: “Volevo che avesse qualche dollaro in tasca, volevo essere sicuro che non dovesse mai vendere droga per procurarsene“. Non si pensi, tuttavia, che Gary sia tenuto nella bambagia: durante il secondo anno di high school lo sospendono per mezza stagione dalla squadra (dove, ovviamente è una stella) a causa dei voti troppo bassi e di continue sospensioni per l’atteggiamento clownesco che tiene a scuola. Diamine, è un campione, perchè avrebbe dovuto fare qualcos’altro oltre a tirare a canestro? Al non la prende benissimo e, furioso, un giorno irrompe in classe: “Ragazzi, voglio dimostrarvi che mio figlio non è un uomo, ma un bamboccio” e lo umilia sculacciandolo davanti a tutti. La lezione è talmente utile che, anche al college, la minaccia “chiameremo tuo padre” spesso basta a farlo rientrare nei ranghi.
La Skyline è una scuola dura, “di frontiera” e alle partite è sempre presente la polizia, per prevenire le frequenti risse tra il pubblico, e anche tra i giocatori spesso si scatenano baruffe: leggendaria la battaglia campale che coinvolge tutto il palazzetto dopo un tiro vincente di Gary nella sfida contro la Fremont, con atleti e supporters a darsela di santa ragione. Payton, caratterialmente, non è tipo da tirarsi indietro, ama provocare, litigare, istigare, insultare e presto impara anche un gradevole effetto collaterale della sua boccaccia sempre aperta: non solo i suoi avversari si innervosiscono, ma lui gioca meglio. E’ una lezione che gli verrà utile e definirà uno dei marchi di fabbrica del suo stile di gioco.
Al momento di iscriversi al college le richieste tardano ad arrivare e non certo per questioni tecniche: il giovanotto è bravo, molto bravo, anzi bravissimo, ma la (giustificata) fama di “troublemaker” gli si è ormai attaccata addosso e le università sono sempre restie ad offrire borse di studio a possibili bombe ad orologeria; fortunatamente per Payton Oregon State rompe gli indugi e gli apre le porte. Nelle quattro stagioni con i Beavers i punti segnati salgono esponenzialmente da 12.5 a 25.7 ad allacciata di scarpe e proprio nell’anno di uscita da senior smazza anche 8.1 assist, recupera 3.4 palloni e abbranca 4.7 rimbalzi di media guadagnandosi la copertina di Sports Illustrated che lo incorona miglior giocatore del basket universitario
E’ il momento del draft e, inutile a dirlo, nonostante la perdurante fama di attaccabrighe, è una delle pietre preziose del lotto anche perchè, diciamocelo chiaramente, la leva del 1990 è una delle più dimenticabili della storia: dalla 4 alla 10 i nomi usciti sono Dennis Scott, Kendall Gill, Felton Spencer, Lionel Simmons, Bo Kimble, Willie Burton e Rumeal Robinson. Se non avete scorto All Stars non è un errore vostro…ciò detto, Payton non deve aspettare molto per salire sul palco e, immediatamente dopo Derrick Coleman ai Nets, i Seattle Supersonics vanno dritti su di lui.
Abbiamo già intuito che la modestia non è proprio la specialità della casa e il ragazzo infatti la prende bassa, pigliando subito a male parole Michael Jordan nella prima partita di preseason e poi dichiarando: “Giocatori come me e Magic Johnson non nascono spesso“. Il problema è che, per usare un cauto eufemismo, il primo biennio è tragico: segna poco e anche la difesa, della quale sarà un maestro, non decolla. Insomma, comincia a farsi strada l’idea che non sia quel crack che si pensava potesse essere.
Fortunatamente, vuoi per una naturale maturazione, vuoi perchè il nuovo allenatore George Karl riesce a valorizzarlo al meglio, il ragazzo, al terzo anno, comincia ad aprire le ali ed è un continuo crescendo; con Shawn Kemp forma un duo assai bene assortito e, soprattutto, il suo contributo su entrambi i lati del campo diventa devastante: dal 1993 al 2003 gioca quasi ininterrottamente l’ All Star Game (fa eccezione la stagione 1998/99) mettendo a segno medie punti da top scorer (anche oltre i 24 punti nel 1999/00). Sfiora il titolo nel 1996, quando solo i Chicago Bulls di Jordan fermano la corsa dei Sonics (4-2 in finale); sotto 3-0 coach Karl si affida a Payton per arginare il 23 e il risultato è strabiliante: nelle 3 partite successive MJ rimane a 23, 26 e 22 punti tirando col 37%; sfortunatamente l’handicap è troppo pesante e la rimonta finisce “corta”. Gary si può consolare con l’oro olimpico conquistato ad Atlanta dalla selezione statunitense, di cui fa parte e con il premio di miglior difensore NBA, unica point guard nella storia a potersi fregiare di tale onorificenza; per ben otto volte in carriera viene inserito nel miglior quintetto difensivo e d’altronde il suo nomignolo, “The Glove”, bene ne sintetizza la straordinaria capacità di sigillarsi all’avversario fino a soffocarlo.
Nel 2002, trentaquattrenne e dopo 13 anni nella “città della pioggia” viene sacrificato sull’altare del rinnovamento e spedito a finire la stagione a Milwaukee (a fare il percorso inverso è un certo Ray Allen). Il tramonto si fa sempre più vicino e il titolo tanto agognato più lontano; sceglie allora di accasarsi ai Lakers di Kobe, Shaq e Karl Malone, che ha appena firmato per i gialloviola. Sembra una squadra invincibile ma un vecchio adagio recita “non si gioca a basket con le figurine” e infatti il dream team non ingrana, l’amalgama non arriva e i Pistons pasteggiano in finale con un netto 4-1. Gary vorrebbe tentare un altro giro, la macchina sembra di quelle comunque vincenti, ma i Lakers lo impacchettano in direzione Boston; lui mugugna, nicchia, si arrabbia ma alla fine china il capo. Il gruppo in mano a “Doc” Rivers è talentuoso (Paul Pierce, Antoine Walker…) ma non può lottare per il bersaglio grosso e infatti il cammino finisce al primo turno dei playoffs.
L’ultimo treno è quello buono e si chiama Miami; agli Heat serve un backup per Jason Williams e Payton sembra essere l’uomo giusto. La squadra non parte favorita, Pistons e Spurs sembrano un passo avanti ma la copia Dwyane Wade/Shaquille O’Neal promette bene. Per la prima volta da quando era un rookie Payton gioca meno di 30 minuti a partita, ma quell’anno tutto gira alla meraviglia e l’anello arriva quando ormai il tempo utile è quasi arrivato alla fine.
Si ritira a 38 anni, nel 2007, dopo 17 stagioni da professionista, 21813 punti segnati, 7384 assist smazzati e infinite emicranie procurate ad una marea di avversari con la sua difesa regale. E’ del 2013 la doverosa inclusione nella Hall of Fame.
1968-2019: buon compleanno “The Glove”.