Il Draft è come il “Fight Club”, ha due regole: in ognuno ci sono almeno un paio di giocatori destinati a diventare All Star; non è detto, anzi quasi mai è così, che siano i primi a salire gli scalini del podio la sera del Draft. Ogni general manager, quindi, sa che dovrà risolvere enigmi e sfuggire a trabocchetti degni del miglior Indiana Jones per non incorrere in errori madornali.
Oggi ci divertiamo andando a sindacare le scelte operate nel Draft di “soli” 10 anni fa. Un Draft epocale quello del 2009: due futuri MVP, lo “Zion dell’epoca”, sei All Star, e pure un europeo che giocava come “Pistol Pete”. Certo, non all’altezza di quello del 1984 (Jordan, Olajuwon, Barkley, Stockton…), ma in linea a quello del 2003 (LeBron, Carmelo, Wade e Bosh solo per citarne quattro), del 1996 (Iverson, Kobe, Ray Allen, Stephon Marbury) e decisamente migliore di molti altri.
I Los Angeles Clippers, ancora in mano al “parsimonioso” Donald Sterling, ebbero la fortuna di pescare la prima chiamata assoluta e non poterono esentarsi dal chiamare Blake Griffin, ala volante di Oklahoma. Per come Blake mise a dura prova i ferri del College Basket, è facile fare un parallelo con lo Zion Williamson del 2019. Negli anni successivi Griffin, con le sue acrobazie aeree, Blake tramutò Los Angeles in “Lob City” e permise ai Clippers di arrivare ai piani alti della Western Conference e insidiare la supremazia cittadina dei Lakers. I 22 punti e 9 rimbalzi di media in carriera (con un massimo di 24 nel 2014), le sei convocazioni per l’All Star Game, la nomina per cinque volte nei quintetti ideali All NBA e il premio di Rookie dell’Anno 2011 (saltò per infortunio la stagione 2009/10) farebbero pensare a una scelta perfetta, no?
Non proprio; malgrado tutti i riconoscimenti, Griffin non ha seguito quello sviluppo tecnico che in molti aspettavano dopo i due anni a Oklahoma.
Certamente il rammarico per i Clippers non nasce dalla seconda scelta assoluta, quel Hasheem Thabeet selezionato da Memphis. Il centro di UConn, grazie alla statura di 220 centimetri e al tempismo per la stoppata (oltre 4 di media nei tre anni al college), doveva essere un dominatore delle aree NBA, invece è stato una meteora. Mai capace di adattarsi ai ritmi e all’atletismo della lega, chiuse con soli 3 punti e 13 minuti di utilizzo l’annata da matricola. Ciò che rende terribile la scelta dei Grizzlies è constatare che queste statistiche rappresentano il suo massimo in carriera.
Già qualche dubbio sulla bontà della scelta dei Clippers (mentre per la scelta di Memphis non c’è alcun dubbio…) arriva dalla terza scelta dei Thunder. Sam Presti, nella costruzione di quella che avrebbe potuto rappresentare la squadra dominante del decennio, selezionò James Harden, guardia di Arizona State e prodotto dei licei dell’area metropolitana losangelina. Inutile parlare di Harden, MVP del 2018 e ormai uno dei tre giocatori più determinanti della NBA, ma in quel 2009 il suo nome non era ancora sinonimo di stella. Anzi, l’anno da rookie non fu speciale (neanche 10 di media), e in molti criticarono Presti per non aver chiamato Tyreke Evans.
Evans, Infatti, fu scelto proprio alla quarta dai Sacramento Kings, ben lieti di selezionare la guardia che a Memphis aveva dato prova della sua potenza e versatilità. La loro intuizione fu premiata dall’ottima stagione 2009/10 nella quale Tyreke riuscì addirittura a vincere il premio di “Rookie dell’Anno”. Peccato che fu la migliore stagione in carriera (oltre 20 punti, 5 rimbalzi e quasi 6 assists di media) perché gli anni successivi furono contrassegnati da un lento declino a causa dei molteplici problemi fisici.
Minnesota fu la protagonista assoluta del Draft. Dopo aver ottenuto la quinta scelta assoluta dai Wizards, decise di utilizzare le sue tre scelte (5, 6 e 13) per ben tre “point guard”. Alla quinta seleziono la “European Sensation” dell’epoca, quel Ricky Rubio che impazzava in Spagna dalla tenera età di 16 anni. Esordio in ACB a 15 anni, in Eurolega a 16, olimpionico con la Nazionale Spagnola a soli 17, “Ricky Maravilla” – come era soprannominato a Barcellona – sembrava predestinato, un “Doncic prima di Doncic”, talmente atteso che negli States si fantasticava di un nuovo Pete Maravich per le sue qualità di passatore. Ricky decise di rinviare il suo esordio nella NBA di qualche anno (e a questo si deve la discesa alla cinque, altrimenti sarebbe stato scelto molto più in alto), per prepararsi fisicamente all’impatto con la fisicità della lega, ma dal 2011 ha deliziato il pubblico con le sue fantasiose assistenze. Purtroppo, proprio nella sua stagione d’esordio, subì il primo di una lunga serie di infortuni: la rottura del legamento crociato rallentò i Wolves nella ricorsa verso i Playoffs e, soprattutto, lo condizionò per il proseguo della sua carriera. Oggi la scelta viene vista come inopportuna sia per le aspettative (eccessive?) che lo circondavano, sia per chi fu scelto dopo di lui. Non alla sesta, dove gli stessi Timberwolves decisero di cautelarsi dal difficile “Buy Out” di Rubio scegliendo Jonny Flynn, il regista che aveva giocato divinamente a Syracuse. Dopo l’ottima prima stagione, chiusa a 13 punti e 4 assists, Flynn ha patito l’arrivo di Rubio e gravi infortuni muscolari. Scomparso dai radar NBA, ha giocato successivamente in Australia, Cina e, nel 2014, ha disputato solo due partite anche in Italia, con la Orlandina Basket.
In molti speravano che scivolasse alla ottava di New York, ma Golden State non si lasciò sfuggire l’occasione di selezionare alla settima Stephen Curry. Vista adesso una scelta ovvia, ma all’epoca il nome di Curry non era circondato dalle certezze di oggi, altrimenti non avrebbe dovuto attendere ben sette chiamate. E, soprattutto, i Warriors non avrebbero minimamente ponderato l’ipotesi di “impacchettarlo” per arrivare ad Amare’ Stoudamire…La stella di Davidson era reduce da un fantastico Torneo NCAA, ma si portava dietro i dubbi di una struttura fisica molto gracile e un gioco non proprio da play puro. Una “combo-guard” che adesso è la normalità, ma che all’epoca non era sinonimo di successo. La sua carriera è stata un crescendo: superati i fastidi alle caviglie dei primi anni, Curry è stato il dominatore della NBA assieme a James, capace di vincere ben tre titoli NBA e due premi di MVP, oltre ad altre innumerevoli onorificenze. Ma, molto più importante, ha contribuito a sconvolgere il gioco della NBA grazie al suo stile di gioco e all’uso del tiro da distanze siderali. Una rivoluzione che si rispecchia nel “pace and space” dove il tiro da tre punti ha preso decisamente il sopravvento, il campo è completamente allargato e le squadre sono state costrette a modificare i “line up” per adeguarsi.
I Knicks, con il sogno Curry infranto, ripiegarono su Jordan Hill, un’ala grande dalle eccelse doti fisiche ma non proprio un giocatore indimenticabile. Peccato perché il pubblico di New York avrebbe potuto ammirare le incursioni aeree di DeMar DeRozan, la guardia scelta da Toronto alla nona, anche lui divenuto un All Star qualche anno dopo, oppure la creatività di Brandon Jennings, il play reduce dalle “Vacanze Romane” in maglia Lottomatica che i Bucks chiamarono alla decima.
Altri giocatori degni di nota furono Jrue Holiday (Sixers alla 17) e Jeff Teague (Atlanta alla 19), entrambi futuri All Star, i sorprendenti Taj Gibson (Chicago alla 26) e DeMarre Carroll (Memphis alla 27) e l’ottimo Ty Lawson, il terzo play selezionato da Minnesota alla tredicesima ma, per sua fortuna, spedito a Denver alla corte di Carmelo e Chauncey Billups.
Un Draft che esemplifica in maniera netta come sia difficile non solo valutare il talento, ma soprattutto prevedere l’evoluzione di un giovane giocatore negli anni a venire.
Chissà cosa diremo tra dieci anni del Draft del 2019…..