Ci sono giorni che cambiano la storia dello sport, la percezione di milioni di persone. Ci sono partite in cui, finalmente, tutto il sudore e tutto l’impegno profusi nella preparazione sembrano magicamente trovare il loro perché. Come in un film di Walt Disney, tutti i pezzi del puzzle trovano magicamente il loro posto e, finalmente, ti ritrovi stanco, felice e quasi soffocato dall’abbraccio dei tuoi fratelli, di quelli che come te hanno lavorato e hanno creduto.
Per il tifoso di basket argentino – ma anche per qualsiasi appassionato degno di tale nome – uno di questi giorni è il 27 agosto 2004 e la partita è Argentina-Stati Uniti, valida per la semifinale olimpica di Atene. Gli americani – tra gli altri – contano su Tim Duncan, Allen Iverson, Amar’e Stoudemire, Dwyane Wade, Lamar Odom, Stephon Marbury e un giovanissimo LeBron James, ma nonostante i grandi nomi, sono apparsi in difficoltà perdendo prima contro Portorico e poi contro la Lituania. Si sono comunque qualificati per la semifinale vincendo il quarto di finale con la Spagna. I sudamericani invece sono una “squadra del destino”: lo si è capito il 12 giorni prima, quando Manu Ginóbili ha “steso” la Serbia con un incredibile tiro all’ultimo secondo. Gli americani danno l’idea di una squadra potenzialmente imbattibile ma incapace di raggiungere il proprio potenziale: un mix di arroganza e di “sindrome da All Star”, la convinzione che il talento debordante possa essere sufficiente a dominare qualsiasi avversario.
Rubén Magnano, coach della selezione biancazzurra, il Dream Team – quello vero – lo ha incontrato da giocatore nel 1992…il 128 a 87 con cui Jordan, Bird e Magic hanno maltrattato la sua squadra gli ha regalato un obiettivo ed anche la convinzione che per battere i “mostri” devi essere più “squadra”. A suo favore gioca il fatto che a distanza di 12 anni il livello degli americani non è lo stesso e soprattutto non c’è la stessa dedizione “alla causa” del Basket. I suoi ragazzi, invece, si getterebbero nel fuoco l’uno per l’altro: ci sono Alejandro Montecchia, Andres Nocioni, Rubén Wolkowyski, Fabricio Oberto, Luis Scola, Carlos Delfino, Walter Herrmann, Hugo Sconochini, Pepe Sánchez, Gabriel Fernández…e poi c’è lui, il diamante più luminoso, Emanuel David Ginóbili Maccari.
Team USA parte meglio, ma gli argentini non si scompongono. Lentamente e inesorabilmente costruiscono la loro ragnatela sui due lati del campo, bloccano i potenti avversari, li rallentano. Dopo cinque minuti, in svantaggio per 13 a 15, Manu va a canestro, segna e subisce fallo: è 16 a 15 e l’Argentina non si fermerà più. Coraggio, pazienza, talento al servizio del gruppo…ma anche in questo contesto Ginóbili riesce a fare la differenza, raccontando ad un popolo che il Maradona dei canestri è lui. La sua sinistra “mano de Dios” non è fuorilegge come la sinistra di Diego ma diventa illegale per l’uso che ne fa segnando i 29 punti che decidono la semifinale. Una nazione si gonfia d’orgoglio…e questa volta non è per il calcio: nei café di Buenos Aires come nei più umili “barrios” di Córdoba, nei villaggi sulle aspre colline di Tucumán come negli sparuti paesi della Patagonia, senti dire “pero, los chicos del baloncesto”…
Gli “influencer dei canestri” cambiano il vocabolario: dove prima la frase era “gli americani dell’NBA sono i migliori”, adesso dovrai aggiungere la postilla “sempre che giochino come una squadra”. E Team USA, dal canto suo, la lezione la imparerà velocemente, mettendo da parte la supponenza. Era già accaduto dopo il tracollo di Seul nel 1988, ma lì la scusante era che un gruppo di ragazzini universitari alla fine aveva perso contro dei professionisti europei (e senza trucchi stile Monaco 1972)…ora i professionisti americani, quelli del “campionato più bello” devono chinarsi a una squadra più squadra di loro, ad un gruppo più unito del loro, a degli amici più amici di loro. Di lì a poco l’organismo di selezione statunitense avrebbe messo in piedi un piano per gestire meglio il settore nazionali, per organizzare l’attività in modo più funzionale e togliere alle avversarie ogni possibile vantaggio. Ma la vittoria di Manu e compagni, quella non si poteva più cancellare: un oro che riconciliava tutti i tifosi – non solo quelli sudamericani – con gli aspetti più puri della pallacanestro.
E per questo che la “Generación Dorada” del “baloncesto” argentino è stata amata da tutti: perché ha riportato il Basket con la B maiuscola al centro del progetto, perché ha ricordato agli inventori del Gioco che puoi avere tutto il talento del mondo ma se “i cestisti sono come cinque dita, a mano è aperta sono deboli ma strette in un pugno sono imbattibili”, se “il nome sul petto è più importante di quello sulla schiena”, allora a vincere sarà la Squadra.
Sono passati 15 anni, dal giorno che cambiò la percezione dello sport dei canestri, e non vogliamo dimenticarlo.
27 agosto 2004, Palazzo O.A.K.A. di Atene
Argentina-Stati Uniti 89-81 (43-38)
ARGENTINA: Sánchez 4, Ginóbili 29, Nocioni 13, Oberto 6, Wolkowyski 3, Montecchia 12, Herrmann 11, Fernández 1, Sconochini, Scola 10, Delfino. Coach: Rubén Magnano.
STATI UNITI: Marbury 18, Iverson 10, Jefferson 7, Odom 14, Duncan 10, Wade 2, Boozer 8, James 3, Marion 9, Stoudemire. Coach: Larry Brown.
ARBITRI: Vicente Bultó e Zoran Šutulović.