Pensieri sparsi sulla “quasi sconfitta” degli Stati Uniti a Shanghai: se coach Gregg Popovich pensava di poter dominare solo grazie alla maggior freschezza dei suoi giovani atleti e grazie al loro indubbio atletismo, farà bene a rivedere i piani. Mai avrei pensato di trovarmi a criticare uno dei guru del basket NBA, ma quanto visto nelle prime due gare della sua selezione nella World Cup cinese merita un’analisi più approfondita.
In primis, l’approccio alle partite: sia nella gara con la Repubblica Ceca che in quella con la Turchia è sembrato che gli americani fossero scesi sul parquet per giocare una partita, non per vincerla. In entrambe le occasioni è mancato il “fuoco sacro” e ai giorni nostri se non ti presenti con la “faccia feroce” a una qualsiasi manifestazione FIBA è meglio che non ti presenti affatto, pena la figuraccia. Per trentacinque minuti i Turchi sono rimasti appesi alla partita, salvo poi cambiare marcia non appena gli americani hanno cominciato a sentire il peso dei palloni importanti. E se non fosse stato per il suicidio dalla lunetta con i quattro tiri liberi sbagliati da Dogus Balbay e Cedi Osman, adesso staremmo parlando di una clamorosa sconfitta.
In secondo luogo, la fisicità: non ci si può lamentare del gioco “appiccicoso” degli avversari, ma si deve trovare il modo di mettere la sfida sul binario più consono al proprio stile. E se questo significa giocare più a lungo con un “falso 5”, tanto meglio, specie nei momenti in cui Myles Turner esce dalla partita.
Punto terzo: la difesa: non mi era mai capitato di vedere una squadra di Popovich perdere l’uomo per ben due volte sulla rimessa. E’ accaduto a Joe Harris e Khris Middleton nel primo tempo, e se a questo aggiungiamo l’eccessiva “mollezza” sulle penetrazioni dell’avversario (Ersan Ilyasova ci è andato a nozze) e la mancanza di intimidazione (Brook Lopez sotto canestro fa meno paura di Jayson Tatum!) soprattutto quando Turner prende fiato, il quadro difensivo è piuttosto inquietante.
Punto quarto: mai in campo aperto. Le avversarie lo sanno, e fanno in modo di limitare al massimo le escursioni in contropiede della selezione a stelle e strisce. Ed anche se a parziale scusante c’è il fatto che in area FIBA il campo più piccolo ovviamente agevola i cestisti meno atletici, mi sarei comunque aspettato da Popovich un gioco più improntato all’apertura veloce ed alla transizione rapida. Invece Team USA si trova spesso a dover giocare “a metà campo” contro difese vischiose che mettono in difficoltà i “gioiellini” NBA tutti velocità e “no hand checking”.
E’ vero, spesso i replay televisivi forniscono prove di falli non fischiati sulle conclusioni ravvicinate, fischi che nel campionato più bello del mondo sarebbero sicuramente rilevati. Ma è ora che i vari Tatum, Mitchell e Turner capiscano che se vuoi andare a canestro in area FIBA devi andarci con la massima grinta e con una potenza superiore, perché non appena il tuo livello di “cattiveria agonistica” si abbassa, sei alla mercè dell’avversario.
In questo quadro preoccupante, ovviamente anche i giocatori hanno le loro responsabilità. Ma per tutti loro – ad eccezione di Harrison Barnes e Miles Plumlee – quella in Oriente è la prima grande vetrina. Come ha constatato anche Giannis Antetokounmpo contro il Brasile, è chiaramente un altro tipo di basket, e se non lo affronti con il massimo della concentrazione e con il “killer istinct” non ne verrai a capo. Ecco perché critico Gregg Popovich: lui il gioco FIBA lo conosce da molto tempo e se assieme a Steve Kerr non è ancora riuscito a passare ai suoi giocatori quel “sense of urgency”, la consapevolezza che ai Mondiali non puoi giocare senza il “coltello fra i denti”, allora la maggior parte della responsabilità è sua.
E farà meglio a correre ai ripari. Velocemente.