Jerry West, Wilt Chamberlain ed Elgin Baylor hanno qualcosa in comune oltre ad aver giocato insieme ai Los Angeles Lakers: tutti e tre hanno vinto molto meno di quanto la loro enorme classe gli avrebbe consentito. Come per il compianto Felice Gimondi, che dovette lottare per tutta la carriera con il “cannibale” Eddie Merckx, così questi tre fenomeni del basket ebbero la sfortuna di incrociare i Boston Celtics di Red Auerbach, Bill Russell e degli altri campioni che negli anni ’60 lasciarono solo le briciole alla concorrenza. Tuttavia, se Chamberlain (due titoli NBA) e West (uno), riuscirono quantomeno a raccogliere un po’ di “argenteria”, Baylor rimase a bocca asciutta.
Elgin nacque in un sobborgo di Washington il 16 Settembre del 1934 e, come molti altri neri, non ebbe un’infanzia agevole: parchi giochi e altri centri di aggregazione “for white only”, briciole per gli altri; nessuna eccezione per i campi da basket, ovviamente, e così, in mancanza di strutture utilizzabili, non toccò una palla a spicchi fino all’adolescenza; nonostante ciò al liceo era già un fenomeno, conosciuto essenzialmente nella sua comunità grazie al passaparola, visto che anche nel mondo scolastico vigeva la separazione su base razziale e la stampa non si occupava certo delle squadre composte da ragazzini di colore.
Un esempio: quando Jim Wexler, bianco,segnò 52 punti battendo il record cittadino si guadagnò un titolone sulla pagina sportiva del Post, mentre quando il Nostro ne fece 63 “scalzando” proprio Wexler ebbe solo una citazione nascosta all’interno di un articolo di contorno…una vitaccia, ma non mancò il momento della rivincita grazie all’ “Afro-American”, pubblicazione destinata alla Washington “nera” che pensò di organizzare una partita dove si sarebbero sfidati proprio Wexler e Baylor; l’idea nacque dopo la mancata convocazione di Elgin all’ “All High, All prep Game” del 1954, incontro che avrebbe visto sfidarsi i migliori talenti della capitale; per il “duello” ci si dispose a reclutare un supporting cast diviso per “razza”, ma non fu affatto facile perché i presidi delle scuole per bianchi minacciarono di sospensione o persino di bocciatura chi avesse accettato di giocare. Alla fine la cosa si fece: in 2000 si presentarono a vedere lo spettacolo, in una palestra che poteva contenere al massimo 1200 spettatori; superfluo dire chi stravinse il confronto diretto, segnando i primi 8 tiri, terminando con 44 punti e portando la sua squadra ad una netta vittoria con 25 di margine.
Finita la High School, le università non fecero la fila per accaparrarselo, anche perchè il ragazzo non fu mai uno studente volenteroso (per un periodo lasciò addirittura la scuola per lavorare in un mobilificio); riuscì ad entrare al College of Idaho ed in una squadra modesta, già da “freshman”, ammassò cifre impressionanti: 31.3 punti e quasi 19 rimbalzi a partita; purtroppo il basket non era una priorità della dirigenza, che decise di tagliare i fondi e di licenziare il coach. Ad Elgin, come sempre titolare di medie non da primo della classe, venne ritirata la borsa di studio e si trovò con in mano un pugno di mosche. Tuttavia quell’unico campionato gli valse l’attenzione degli addetti ai lavori e la chiamata dalla Seattle University. Per due anni fece fuoco e fiamme flirtando con i 20 rimbalzi e i 30 punti di media; nel 1958 sfiorò il miracolo portando i non fortissimi Redhawks ad un passo dal titolo, sconfitti solo in finale dalla favorita Kentucky nonostante i suoi 25 punti e 19 carambole. Baylor non poteva saperlo, ma questa sarebbe stata un’ amara consuetudine in futuro. Era il momento di fare il salto e al draft del 1958 i Minneapolis Lakers spesero la loro prima scelta per lui. La franchigia era una nobile decaduta sull’orlo della bancarotta, in crisi di risultati e di presenze al palazzetto: Elgin fu una boccata di ossigeno e si rivelò subito per quel che era, un’ala piccola con un controllo del corpo spaventoso ed un tiratore chirurgico; Minneapolis tornò allo stadio per ammirare il suo numero 22 (numereo che non abbandonò mai). Guadagnò immediatamente la prima convocazione di 11 totali per l’All Star Game e, grazie a 24 punti e 11 rimbalzi, fu nominato MVP in coabitazione con un’altra leggenda, Bob Pettit. Concluse la stagione con 24.9 punti e 15 rimbalzi di media ed, ovviamente, fu “rookie of the year”. Non solo, nonostante un record modesto, 33 vittorie e 49 sconfitte, i Lakers approfittarono di una division non esattamente competitiva per guadagnare i playoffs ed arrivare sino alla finale, persa contro i Boston Celtics. Negli anni seguenti le cifre continuarono a lievitare: i punti a partita diventarono 29,6, poi 34.8, poi 38.3 nel 1961/62, anche se quell’anno giocò solo 48 volte in regular season causa servizio militare. Proprio nel 1962 arrivò la seconda delusione, ancora per colpa dei bianco-verdi di Red Auerbach e questa volta fu decisamente cocente: nonostante l’esplosione del sophomore Jerry West dopo un anno di apprendistato, i Lakers (trasferitisi nel frattempo nella a noi più familiare Los Angeles) cedettero in sette incontri e a nulla servirono i 41 punti di Baylor nell’ultima gara: Boston portò a casa l’anello con una tiratissima vittoria per 110-107. La storia si ripetè nel 1963 (il Leprechaun prevalse per 4-2), poi nel 1965 (4-1), anche se in questa occasione il 22 non giocò perchè infortunatosi gravemente al ginocchio dopo pochi minuti delle Western Division Finals vinte contro i Baltimore Bullets; arrivarono ancora tre finali perse, nel 1966 (4-3), 1968 (4-2) e soprattutto 1969, quando, da favoritissimi (quell’anno era arrivato anche un certo Wilt Chamberlain), i Lakers che avevano già preparato i festeggiamenti con tanto di palloncini da lasciar cadere sul campo furono beffati in casa in una memorabile settima partita dai vecchi leoni guidati da Bill Russell. Elgin aveva 34 anni e il ginocchio malandato gli rendeva ormai impossibile giocare ai suoi livelli. Ebbe un’ultima occasione nel 1970 ma ancora una volta, e fu l’ottava finale, il destino si mise di traverso con le sembianze di Willis Reed e del suo leggendario ritorno in campo per gara-7. Ulteriore ed ultima beffa del destino, nel 1971, dopo sole nove partite si fece male e decise di ritirarsi; fu così da ex giocatore che vide i Lakers stravincere il titolo con 69 vittorie in regular season e un bilancio di 12-3 ai playoffs. A parziale consolazione, la franchigia californiana gli consegnò il rituale anello celebrativo, anche se per l’albo d’oro Baylor non figura tra i vincitori.
La sfortuna non può in ogni caso far dimenticare gli oltre 23000 punti e 11000 rimbalzi collezionati, gli 11 All Star Games o le 10 inclusioni nel miglior quintetto NBA, numeri che gli valsero la Hall of Fame. Fuori dallo Staples Center troneggia una statua con le sue fattezze, insieme a quelle di Jerry West, Kareem Abdul-Jabbar, “Magic” Johnson, Shaquille O’Neal e Francis “Chick” Earns, lo storico cronista che ha “raccontato” i Lakers per quarant’anni…e poco male per quel maledetto trofeo che non è mai riuscito ad acchiappare.