C’erano una volta i Chicago Packers, nati nel 1961, tentativo di allargare ad altre piazze una NBA che sino ad allora contava solo 8 squadre; purtroppo la città ventosa rispose in maniera tiepida e dopo solo un biennio la franchigia si spostò a Baltimore cambiando la denominazione in “Bullets”; è del 1973 il definitivo trasloco a Washington, nella per noi usuale e prestigiosa collocazione voluta dal nuovo owner Abe Pollin. In tempi di “politically correct”, nel 1997, il nome sarebbe poi stato cambiato nel più tranquillizzante “Wizards”, che non sarà un granchè ma sempre meglio delle altre proposte scartate dei fans: “Antelopes”, “Astronauts” o “Express”…
Ma siamo andati troppo oltre perchè la nostra storia si svolge ai tempi dei giovani Queen di Bohemian Rhapsody e della “Febbre del sabato sera”, insomma, nella stagione 1977/1978. I protagonisti sono ovviamente i Washington Bullets, un’ottima squadra, d’accordo, ma che non parte certo con i favori del pronostico.
L’ultimo campionato si è concluso con una onorevole sconfitta per 4-2 al cospetto degli Houston Rockets di un giovanissimo Moses Malone dopo una regular season da 48 vittorie e 34 sconfitte. La offseason non offre particolari stravolgimenti anche se da Milwaukee arriva un innesto importante, Bob Dandridge, uomo di esperienza (già 8 anni di NBA sulle spalle) e di classe (tre volte all star, che diventeranno 4 l’anno successivo). I Bullets, lo abbiamo detto, non sono gli ultimi arrivati (“underdog”, d’accordo, ma il titolo non si vince per grazie ricevuta). La coppia di lunghi, formata da Elvin Hayes e Wes Unseld, è oggettivamente eccellente: Hayes non ha mancato un All Star Game dall’anno di esordio, l’ormai lontano 1968. E’una macchina da doppie-doppie, una sorta di Kevin Garnett ante-litteram, capace di difendere con aggressività e di segnare a ripetizione grazie ad un jumper mortifero (27313 punti, nella storia solo 7 giocatori hanno fatto meglio).
Il “compagno di banco” Wes Unseld ne è l’ideale complemento: modesto attaccante ma difensore eccezionale, pattuglia l’area come pochi altri (terminerà la carriera con 14 rimbalzi di media a partita). Il quintetto è completato dal già citato Bob Dandridge, da Tom Henderson e da Phil Chenier, idolo dei tifosi e gran tiratore (e tre volte all star, en passant). A far da contraltare ad un quintetto di grande livello c’è una panchina apparentemente assai povera, o meglio,di impatto ancora incerto, piena di giovanotti di belle speranze che devono ancora dimostrare le loro capacità. Tra questi spicca Mitch Kupchak (forse i tifosi dei Lakers lo hanno sentito nominare), un centro al secondo anno che arriva da una buona stagione a 10.4 punti di media.
L‘inizio non è dei migliori: dopo 10 partite i Bullets ne hanno già perse 6, ma presto la squadra comincia ad ingranare; ad inizio Gennaio il record è ampiamente positivo ma, otto giorni dopo il capodanno 1978, Phil Chenier si infortuna gravemente…torneo finito e, pare, addio ai sogni di gloria. Chenier non è solo il playmaker titolare ma, nonostante non stia giocando il suo migliore basket, rimane pur sempre uno dei punti di riferimento della squadra. Senza “regista” Washington rallenta tra Gennaio e Febbraio; per coprire lo spot rimasto vacante viene scelto l’onesto Charles Johnson, appena tagliato da Golden State. Ovviamente ci sono giochi da cambiare, rotazioni da rivedere e il cammino da qual momento si mantiene sul 50% di vittorie per terminare con un non indimenticabile 44-38, buono per un terzo posto nella modesta Eastern Conference (solo 5 squadre con un record vincente) a distanza siderale dai 76ers (55-27) e dagli Spurs (52-30).
Il primo turno di playoffs prevede una sfida al meglio delle tre partite e l’avversario designato, Atlanta, è abbordabile: i Bullets la risolvono con un 2-0, anche se il punto decisivo, in trasferta, arriva solo all’overtime grazie ai 41, incredibbili punti di Kevin Grevey, uno di quei ragazzotti della panchina che avrebbero dovuto dimostrare di essere all’altezza.
La semifinale di Conference contro gli Spurs di uno straripante George Gervin sembra il capolinea, ma Washington ha ormai cambiato marcia e, dopo aver perso gara-1 all’Alamo, Hayes e soci infilano tre vittorie di fila per sovvertire il pronostico e chiuderla sul 4-2. Nota a margine (da utilizzare per fare bella figura con gli amici), proprio alla fine della prima partita di quella serie viene utilizzato in ambito cestistico dal giornalista Dan Cook l’adagio oggi molto utilizzato “Non è finita finchè la signora grassa non canta” (“It ain’t over till the fat lady sings”).
Ad ogni modo il primo miracolo è compiuto, ma ora serve il secondo perchè ad attendere i Bullets per la finale ad Est, dopo George Gervin c’è Julius Erving con i suoi Philadelphia 76ers, titolari del primo seed della conference e favoriti per il titolo data la clamorosa eliminazione al primo turno dei campioni uscenti di Portland. Incredibilmente la squadra timida della regular season scompare ancora una volta e grazie a Bob Dandridge (22.8 di media) ma soprattutto ad un monumentale Elvin Hayes (23 punti, 15.7 rimbalzi, 1.7 rubate ed oltre tre stoppate di media), Washington la spunta senza nemmeno sudare troppo (4-2).
E’ finale, dunque, una finale decisamente a sorpresa perchè dall’altra parte c’è la numero 4 del tabellone, i Seattle Supersonics, che, come i Bullets, hanno eliminato le prime due della classe, Portland e Denver. E’una serie tiratissima e i Sonics si trovano avanti per 3-2 con la possibilità di giocare la settima in casa. Washington domina gara-6 (117-82), ma all’inizio di gara-7 anche Kevin Gravey, inasperttato, ottimo sostituto di Chenier, si fa male. Dandridge è costretto a giostrare da play con rotazioni ridottissime ma ormai la ruota del destino è in moto e con il sigillo di Wes Unseld, che segna l’ultimo canestro, i Bullets la spuntano per 105-99 diventando l’unica squadra a vincere l’anello portando a casa gara-7 in trasferta. Unseld, “operaio” in una squadra tutta cuore, viene nominato MVP delle finals.
Quella squadra ebbe un ultimo sussulto l’anno successivo, quando raggiunse nuovamente le finals (non più a sorpresa) venendo però sconfitta nettamente nella rivincita con Seattle, dopodichè Washington entrò in quel lungo tunnel di mediocrità che, dopo 40 anni non è ancora terminato, lasciando i tifosi nella perenne attesa di un’altro miracolo.