Da anni la NBA si sta adoperando per rendere sempre più universale il proprio marchio, portando in giro le varie franchigie a diffondere il “verbo” della pallacenestro più spettacolare del mondo. In Europa siamo avvezzi a questo genere di eventi e non parliamo solo di amichevoli alle quali la stessa Italia non è stata estranea: dal 2011 Londra ha ospitato 9 partite valide per la regular season e nel Gennaio del 2020 si giocherà a Parigi Bucks-Hornets.
In quest’ottica di ecumenismo baskettaro rientrano pienamente le trasferte cinesi e gli “India Games” di questo autunno, ovvero due incontri disputati ad inizio Ottobre nel subcontinente da Sacramento Kings ed Indiana Pacers. Si tratta di un’investimento per il futuro, futuro che interessa un bacino di utenza sterminato, oltre un miliardo e trecento milioni di persone, ancorchè vergine dal punto di vista cestistico, basti pensare che la prima lega professionistica è nata solamente nel 2015.
Gli americani hanno dovuto di fatto portare con sè tutto tranne il palazzetto: schermi led, luci, persino gli spogliatoi: il tutto esaurito era scontato, anche perchè l’ NCSI Dome di Mumbai, a dispetto del nome altisonante, può ospitare meno di 5000 persone. Tuttavia il primo seme è stato piantato e, come Adam Silver ha un po’ ottimisticamente vaticinato, chissà se “tra 5 anni magari potremo contare sul primo giocatore indiano nella NBA.”
Detto dello “sweep” per 2-0 inflitto dai Pacers ai Kings, l’occasione per i tifosi indiani è stata ghiotta anche per vedere da vicino Larry Joe Bird da French Lick, al quale è stata tributata una scontata standing ovation quando è stato presentato alla folla che gremiva le gradinate del palazzetto. Bird era al seguito dei Pacers, dei quali è stato allenatore (coach of the year nel 1998) e poi dirigente per un decennio; attualmente ricopre il meno stressante ruolo di consulente e, quando occorre, di uomo-immagine. La sesantaduenne leggenda si è resa disponibile a tutte le interviste del caso, gettando uno sguardo sul passato, dall’infanzia sino ai tempi in cui, insieme all’ amico Earvin “Magic” Johnson, dominava i campi da gioco. Gli anni ’70 furono un decennio critico per la NBA: lo “scisma” che portò alla creazione della “American Basketball association” (ABA) e il calo di interesse da parte del pubblico ne avevano addirittura messo in dubbio la sopravvivenza stessa prima della rinascita, quella rinascita che viene fatta un po’ sommariamente (ma non del tutto ingiustificatamente) risalire all’esordio dei due campioni e al successivo dualismo che si venne a creare tra le squadre delle quali erano gli alfieri, Celtics e Lakers. Il pensiero di Larry è un po’ controcorrente: “In realtà ci furono un sacco di altri giocatori che aiutarono a salvare quella NBA, la cosa non partì da noi. Tuttavia, forse abbiamo dato un contributo, in qualche modo: entrambi eravamo dei vincenti, entrambi cercavamo di far giocare meglio i nostri compagni…non che non ci fossero stati o non ci fossero altri atleti molto forti, ma il modo che avevamo di approcciarci al gioco, credo, ebbe un notevole impatto, anche nei tifosi che guardavano le partite. La situazione all’epoca era pessima, io stesso conoscevo poco la NBA prima di essere scelto dai Celtics, avevo sempre seguito la ABA. Tra i giocatori girava un sacco di droga, una volta David Stern mi disse che nel 1981 aveva dovuto regalare dei biglietti per riempire il palazzetto in occasione dell’ All Star Game ma proprio da lì in poi entrarono Isiah Thomas, Patrick Ewing, Charles Barkley, Michael Jordan, Stockton e Malone. Quei ragazzi contribuirono a portare la Lega su un altro livello.”
Larry, stuzzicato sulla vecchia rivalità con i Bad-Boys di Detroit, risalente alla seconda metà degli anni ’80 non si scompone quando gli viene ricordata la celebre frase “Si parla così tanto di lui solo perchè è bianco”, copyright del poco diplomatico Dennis Rodman, assecondato da Isiah Thomas: “Questo genere di cose non mi hanno mai toccato, è un’opinione come un’altra. Ricordo che alla fine di una partita qualcuno venne a riferirmelo ma, davvero, non mi è mai importato molto”.
Non poteva mancare il riferimento al suo essere competitivo in ogni frangente e alla nomea di “trash talker” che ha sempre portato con sè: “Non so da dove venisse la mia furia agonistica. Semplicemente, in ogni momento, volevo vincere, qualche volta anche troppo, tanto che alla fine della partita mi chiedevo perchè ero stato così “cattivo”. Potrei dire che è un’insegnamento che ho avuto dai miei genitori, ma sarebbe una fesseria. Credo che queste cose dipendano sempre dal modo in cui sei cresciuto.” Riguardo al “Trash Talking” e al suo rapporto con Chuck Person, stella di Indiana con il quale furono scintille in più occasioni: “Ci sono ragazzi che mollano, che non combattono, ma Chuck non era così; sono volate un sacco di parole tra noi ma lo rispettavo”.
Sorride quando gli viene posta una domanda sulla leggendaria gara dei 3 punti del 1986; in quel frangente, entrando nello spoglatoio chiese: “Allora ragazzi, chi arriva secondo?” Larry scava nella memoria con piacere: “In realtà dissi quella frase senza un motivo preciso, non volevo intimidire nessuno…ricordo solo quelle palle rosse, bianche e blu, scivolosissime. Tra l’altro io cominciai ad allenarmi dalla linea dei tre punti solo quando inventarono la gara dell’ All Star Game…insomma, era un ottimo modo per vincere 10000 dollari tirando a canestro un Sabato pomneriggio, perchè non perdere mezz’ora per allenarsi?”
Non ha dubbi su quali siano i suoi atleti preferiti di oggi: “Ovviamente LeBron, è grande come lo fu Jordan, poi Leonard e Durant e i Warriors, che giocano in maniera incredibile. ”
L’ultimo pensiero è per la sua carriera e i tre titoli vinti: “E’ stata dura, ovviamente gli infortuni non ci aiutarono, forse avremmo potuto vincere di più, io ho giocato 13 anni e per tre stagioni sono stato fuori per metà delle partite…Gli anelli vinti sono una cosa speciale, ma non sono tutto il mio mondo, oggi. Lo erano allora, però…il basket è stato la mia vita e in parte lo è ancora. Non pensavo ad altro e sapevo che dovevo allenarmi in continuazione perchè Earvin faceva lo stesso ed eravamo noi contro i Lakers…“