Per alcuni giocatori NBA, l’All-Star Game è un trampolino di lancio. Per altri è il coronamento di una carriera, dopo anni di sacrifici e duro lavoro. Per molti dei partecipanti all’edizione 2009, invece, l’All-Star Game è stata una sorta di ‘maledizione’. Da quel momento in avanti, il loro percorso da professionisti si è addentrato in una spirale negativa che ha portato, in alcuni casi, addirittura a un precoce ritiro. Tra gli All-Star colpiti dalla ‘maledizione del 2009’ troviamo sia ‘meteore’, sia superstar affermate, mai più in grado di ripetersi ai livelli che li avevano spinti a prendere parte all’evento di Phoenix. Il nostro viaggio tra i ‘dannati’ di quella partita comincia dalla formazione ospite, quella della Eastern Conference.

Allen Iverson
‘The Answer’ viene votato in quintetto nonostante le peggiori cifre in carriera (17.4 punti di media in 36.5 minuti). A inizio stagione viene spedito dai Denver Nuggets ai Detroit Pistons nell’affare che porta in Colorado Chauncey Billups. In una versione dei Pistons che punta alla ricostruzione, Iverson è chiaramente fuori contesto. Quando inizia a perdere minutaggio in favore del giovane Rodney Stuckey, l’ex-numero 3 (che a Detroit indossa un insolito #1) dichiara che preferirebbe ritirarsi, piuttosto che fare la riserva; i suoi desideri vengono presto accontentati. L’All-Star Game 2009 è il suo ‘canto del cigno’; il 3 aprile viene dichiarato out for the season per i continui problemi alla schiena. In estate, divenuto free-agent, si accasa ai Memphis Grizzlies, dove gioca solo tre partite prima di rescindere il contratto per “ragioni personali”. Il ritiro sembra ormai imminente, ma la sua storica franchigia, i Philadelphia 76ers, decide di concedergli un ultimo giro di giostra. Torna a vestire la maglia dei Sixers il 7 dicembre 2009 e viene nuovamente convocato (per acclamazione popolare) all’All-Star Game, ma non partecipa per assistere la figlia malata. Il 22 febbraio lascia la squadra; la sua carriera NBA termina così. Nella stagione 2010/11 gioca dieci partite in Turchia, con la maglia del Besiktas, salvo poi tornare negli Stati Uniti e non mettere mai più piede, da professionista, su un parquet.
Devin Harris
Arrivato ai New Jersey Nets tra le contropartite della trade che aveva portato Jason Kidd ai Dallas Mavericks, Devin Harris conquista il pubblico di East Rutherford a suon di prestazioni clamorose; 38 punti contro i Pistons il 7 novembre 2008, 47 a Phoenix il 30 novembre, 39 punti con tanto di buzzer-beater da centrocampo contro i Sixers il 23 febbraio 2009. Quando i suoi cari, vecchi Mavs fanno visita all’IZOD Center e Harris li ‘punisce’ con 41 punti e 13 assist, il pubblico schernisce il proprietario texano Mark Cuban, presente a bordocampo, con il coro “Thank you, Cuban!”. La chiamata all’All-Star Game è obbligatoria; sarà la prima, ma anche l’ultima. Al draft 2009, i Nets arrivano a scambiare Vince Carter per consegnare a Harris le chiavi della squadra, ma una serie di infortuni a spalla e caviglia lo limita a 64 partite nella stagione 2009/10 e a 54 in quella successiva. Alla trade deadline 2011, i Nets lo spediscono agli Utah Jazz (insieme a Derrick Favors) per arrivare a Deron Williams. Nel giro di due anni, Devin è passato da All-Star a semplice ‘role player’, status che manterrà per il resto della carriera.
Jameer Nelson
Anche lui debuttante, il povero Nelson non riesce nemmeno a giocarlo, il suo unico All-Star Game. La convocazione arriva per via della buonissima annata individuale (16.7 punti di media, miglior dato in carriera), ma sopratutto dell’eccezionale stagione dei suoi Orlando Magic. Il 2 febbraio 2009, una settimana prima del suo ventisettesimo compleanno e 13 giorni prima dell’All-Star Game, Jameer si infortuna gravemente a una spalla. Riesce a rientrare in tempo per le NBA Finals, dove i Magic vengono sconfitti dai Los Angeles Lakers di Kobe Bryant. Da quel momento, la parabola di Nelson inizia la sua fase discendente. All’inizio della stagione 2009/10 si rompe il menisco, fermandosi per un mese. Al suo rientro, rimarrà un elemento cardine del gruppo, ma non non tornerà più a livelli da All-Star.
Mo Williams
Alla sua prima stagione con i Cleveland Cavaliers, Mo Williams si rivela un’ottima spalla per ‘Sua Maestà’ LeBron James. I suoi 17.8 punti di media e l’infortunio di Chris Bosh gli aprono le porte per il primo All-Star Game in carriera. Sarà anche l’ultimo. Nella stagione successiva le sue cifre calano (15.8 punti di media, che scenderanno a 13.3 nel 2010/11) e, quando King James porta i suoi talenti a South Beach, Williams diventa il leader di una delle peggiori squadre di sempre. Il 24 febbraio 2011 viene spedito ai Los Angeles Clippers in cambio di un ‘crepuscolare’ Baron Davis e di una scelta al primo giro del venturo draft. In California, Mo Williams sarà solamente una buona riserva di Chris Paul e Chauncey Billups, mentre la scelta ceduta ai Cavs si tramuterà nientemeno che nella la prima assoluta, con cui Cleveland selezionerà Kyrie Irving.

Danny Granger
Granger è forse l’esempio più eclatante di giocatore ‘maledetto’ dalla partecipazione all’All-Star Game 2009. Scelto dagli Indiana Pacers con la diciassettesima chiamata al draft 2005, l’inizio della sua carriera è un’inarrestabile progressione; 7.5 punti di media nella stagione da rookie, 13.9 in quella successiva, 19.6 nel 2007/08. Al quarto anno, l’esplosione; i suoi 25.8 punti a sera lo rendono il primo (e unico, finora) giocatore NBA ad incrementare il fatturato personale di almeno 5 punti di media per tre tre stagioni di fila. Leader incontrastato dei Pacers, viene eletto Most Improved Player Of The Year e conquista il suo primo All-Star Game. La sua carriera sembra in fase di decollo, invece arriva subito la picchiata. Dopo la partita delle stelle salta 15 gare per un infortunio al piede, che gliene farà perdere altre 18 nel 2009/10. I guai fisici contribuiscono a un brusco calo di rendimento (24.1 di media nel 2009/10, 20.1 nella stagione successiva e 18.7 nel 2011/12). Con l’arrivo del 2012/13, una tendinosi al ginocchio sinistro ne compromette di fatto la carriera; gioca solo 5 partite con Indiana, che nel frattempo ha già trovato in Paul George il nuovo uomo-franchigia. Granger finisce sul fondo della panchina di Los Angeles Clippers e MIami Heat. Nel 2015, dopo tre stagioni mai oltre quota 8.5 punti di media e mai oltre le 30 presenze, opta per un mesto ritiro.
Rashard Lewis
L’arrembante stagione degli Orlando Magic di Stan Van Gundy fa sì che Dwight Howard sia il giocatore più votato per l’All-Star Game di Phoenix, ma regala anche il ‘non-debutto’ tra le stelle a Jameer Nelson e la seconda apparizione a Rashard Lewis, dopo quella guadagnata in maglia Seattle SuperSonics nel 2007. Viene convocato nonostante le sue cifre fossero migliori nella stagione precedente, ma è un premio meritatissimo. Dopo l’evento, Lewis è fondamentale nella corsa alle NBA FInals 2009; segna 19 punti di media ai playoff e mette un incredibile game-winner in gara-1 delle finali di Conference contro Cleveland. Chiusa la stagione, si apre il baratro. Il 6 agosto viene sospeso per dieci partite dopo che alcuni test rilevano l’assunzione di sostanze proibite. Gioca un altro anno e mezzo a Orlando, con cifre in calo (dai 17.7 punti di media del 2008/09 ai 14.1 della stagione seguente). A dicembre 2010 viene incluso nello scambio che porta in Florida GIlbert Arenas. Finisce agli Washington Wizards, dove si trasforma gradualmente in un semplice ‘role player’. Nel 2013 passa ai Miami Heat, con cui vince un titolo NBA e perde una serie finale, sempre da riserva. Dopo la sconfitta contro i San Antonio Spurs diventa free-agent e si accorda con i Dallas Mavericks, ma viene rilasciato subito; i test medici hanno infatti messo in luce un infortunio al ginocchio. La sua carriera NBA è chiusa; tornerà in campo nella lega BIG3.
I casi analizzati finora sarebbero sufficienti, eppure la ‘maledizione’ dell’All-Star Game 2009 si è accanita anche contro coloro che hanno vestito le divise della Western Conference.
Yao Ming
Quello del 2009 è l’ultimo All-Star Game disputato dal grande centro cinese. Yao verrà votato anche per l’edizione del 2011, ma a quel punto la sua carriera sarà già compromessa. Dopo l’evento di Phoenix, per i suoi Houston Rockets sembra finalmente l’anno buono, ma gli infortuni di Tracy McGrady e Dikembe Mutombo arrivano ancora una volta a complicare le cose. Ciononostante, riescono a superare lo scoglio del primo turno playoff, eliminando i Portland Trail Blazers. Dopo gara-3 della serie successiva, contro i Los Angeles Lakers, si scopre che quella che sembrava una slogatura alla caviglia sinistra è in realtà una frattura al piede. Il gigante cinese è costretto non solo a chiudere anzitempo la stagione, ma a saltare per intero anche quella seguente. Yao torna in campo nel 2010/11 ma si ferma ancora, stavolta definitivamente, dopo un mese. Il suo enorme fisico non è stato all’altezza del suo altrettanto enorme talento.
Brandon Roy
A proposito dello scarso rapporto fra talento e salute, anche per Brandon Roy quello del 2009 è l’ultimo All-Star Game in carriera. Nel pieno della sua miglior stagione di sempre, chiusa a 22.6 punti di media e con l’inclusione nel secondo quintetto All-NBA, ‘B-Roy’ è il giocatore che rimane in campo più a lungo di tutti, nella partita di Phoenix. Il 2008/09 è anche la sua ultima stagione completa. In quella successiva gioca solo 65 partite (saltando anche l’All-Star Game) per via di alcuni problemi a entrambe le ginocchia, che si scopriranno di natura degenerativa (causati dalla mancanza di cartilagine) e che avranno ripercussioni anche a livello muscolare. Nel 2010/11 le gare disputate sono solo 47. Poco prima che il training camp 2011 abbia inizio, la guardia di Seattle annuncia al mondo il suo ritiro. Tenterà un comeback nel 2012/13, con i Minnesota Timberwolves, ma il sogno di rivederlo ad alti livelli svanisce definitivamente dopo cinque partite.
David West
Tra tutti i giocatori analizzati finora, David West è indubbiamente quello che ha avuto la carriera migliore, dopo l’All-Star Game 2009. Anche per lui, però, quell’evento ha segnato l’inizio della parabola discendente, almeno sul piano individuale. 21 punti di media nel 2008/09, quando era uno dei pilastri dei New Orleans Hornets targati Chris Paul, 19.0 nella stagione seguente, poi 18.9, per arrivare ai 12.8 del 2011/12, primo anno con gli Indiana Pacers. Nel mezzo, la rottura del crociato del marzo 2011, che ha definitivamente segnato l’inizio della seconda fase della sua carriera. Quella più ricca di soddisfazioni; prima le due finali di Conference in maglia Pacers, poi i due titoli NBA con i Golden State Warriors. Un giocatore estremamente solido, ma lontano anni luce dall’All-Star visto a New Orleans. Poco male, guardando la sua bacheca…

Shaquille O’Neal
Per chiudere questa particolare rassegna, non c’è giocatore più adatto che Shaq, il co-MVP dell’All-Star Game 2009. La carriera del leggendario centro di Magic, Lakers e Heat sembrava giunta al capolinea con il suo trasferimento, nel febbraio 2008, da Miami a Phoenix. Con i Suns, però, colui che si auto-ribattezza ‘The Big Cactus’ trova una seconda giovinezza. Grazie alle cure particolarmente efficaci dello staff medico riesce a tornare in forma e regala a coach Alvin Gentry un 2008/09 da 17.8 punti di media. Il pubblico lo vuole in campo nel ‘suo’ US Airways Center e lui risponde con una prova da 17 punti in meno di 11 minuti, provvidenziale per la vittoria del Team West. La giuria coglie l’irripetibile occasione per assegnare il trofeo di MVP ex-aequo a lui e all’eterno nemico/amico Kobe Bryant, e i due fingono di litigare per che debba sollevarlo per primo. Non esiste dimostrazione migliore per il concetto di ‘canto del cigno’; al termine della stagione, la sua prima senza playoff dal 1993, Shaq viene ceduto a Cleveland per liberare spazio salariale. Dichiara di voler aiutare LeBron James a vincere il titolo NBA, ma le cose non vanno come previsto: dopo 53 partite disputate e il minimo in carriera in varie categorie statistiche, un infortunio al pollice della mano destra lo tiene fermo per la parte finale della regular season. Rientra al primo turno playoff e contribuisce a eliminare i Chicago Bulls. Nella serie successiva i suoi sogni, quelli di LeBron e quelli di Cleveland si infrangono contro il muro biancoverde. E’ proprio con i Boston Celtics che Shaq vive la sua ultima stagione, falcidiata dai continui infortuni. Il 1 giugno 2011, a due anni e poco più dal suo ultimo All-Star Game, annuncia che le gigantesche scarpe verranno appese al chiodo una volta per tutte.