Larry Joe Bird, uno dei più grandi giocatori della storia, oggi compie 63 anni. Ecco, solo dieci parole e ho già scritto una mezza fesseria: Larry non è un giocatore di basket, Larry è il Basket. Per quanti non hanno avuto la fortuna di vederlo giocare “in presa diretta” come il sottoscritto, consiglio un’abbondante cura omeopatica a base di Youtube, NBA.com, e in genere ogni piattaforma multimediale in grado di presentare fotogrammi in movimento del fenomeno da French Lick, Indiana.
Eppure, nonostante gli splendidi montaggi e le accattivanti grafiche, ci sarà sempre il rischio che di Larry Joe Bird sfugga l’essenza, il “nucleo radioattivo”. Quello di una macchina umana votata alla vittoria della sua squadra. Due polmoni, quattro arti, due occhi e soprattutto un cervello dedicati, con una concentrazione sovrumana, all’Arte del Basket. Una macchina che unisce un discreto “chassis” (la parte atletica, di caratura buona ma decisamente inferiore se paragonata a quelle delle controparti tipo Julius Erving, “Magic” Johnson e Michael Jordan) ad un processore mai visto prima su un campo da basket. Larry Bird processava informazioni, le elaborava e le utilizzava per trovare la soluzione alle partite. I falli degli avversari, la loro reattività ad un gioco offensivo rispetto ad un altro, la risposta alle sollecitazioni (sì, anche le reazioni ad un “trash talking” che ricorda a tutte le sue origini contadine), tutto entrava nel suo hard disk e al momento giusto veniva sfruttato per prendere il controllo, per “comandare”.
Una padronanza dei fondamentali unica, la perfetta coordinazione occhio/braccio, la capacità – come quella dei grandi giocatori di scacchi – di “coprire” in ogni momento l’intero campo da gioco e di trovare di volta in volta la soluzione migliore: e se questa era rappresentata da un semplice passaggio a due mani dal petto o invece si identificava con un assist a una mano dietro alla testa, per Larry era lo stesso: il fine giustificava il mezzo.
“Deve tirare il giocatore smarcato più vicino a canestro”, affermò : e se questa non è una dichiarazione programmatica nella quale uno dei più grandi si mette al servizio della squadra, ditemi voi cos’è.
I capelli biondi hanno generato paragoni per Dirk Nowitzki, ottimo realizzatore ma clamorosamente inferiore in altri aspetti del gioco, e oggi qualcuno ha già cominciato ad accostargli il nome di Luka Dončić. Il giovane sloveno pare essere già più vicino a Larry in termini di “killer istinct” così come di dedizione alla squadra. Ma i paragoni di questo tipo sono sempre pericolosi perché non rendono giustizia né all’originale né alla “copia”.
Bird le gare le vinceva con il cervello come e forse più di quanto le vincesse con i suoi muscoli, e per questo era tanto amato: ci regalava l’illusione di poter essere Re, di poter essere come lui. Abbiamo dovuto aspettare la sera del suo ritiro, nel febbraio del 1993, per ammettere la verità, ed è stata la voce da eterno bambino dell’amico/rivale Earvin Johnson a svelare ciò che intimamente già conoscevamo: “non ci sarà mai un altro Larry Bird”.
Auguri, Legend.