Il draft NBA 2014 era atteso come pochissimi altri, nella storia recente. Addirittura, i più incauti lo paragonavano (a priori) alle edizioni del 1984 (l’anno in cui furono scelti MIchael Jordan, Hakeem Olajuwon, Charles Barkley e John Stockton), del 1996 (Kobe Bryant, Steve Nash, Allen Iverson e Ray Allen, tra gli altri) e del 2003 (LeBron James, Carmelo Anthony, Dwyane Wade e Chris Bosh). Secondo gli esperti del settore, quella classe prometteva di sfornare talenti in grado di cambiare le sorti delle franchigie che li avrebbero selezionati. In particolare, a scatenare le fantasie dei tifosi e dei general manager erano Andrew Wiggins e Jabari Parker, i due atleti che si sarebbero contesi la prima chiamata assoluta.

Wiggins era la punta di diamante della nuova leva cestistica canadese, quella cresciuta ammirando le acrobazie di Vince Carter con la maglia dei Toronto Raptors. Parker era un ragazzo prodigio del South Side di Chicago, diventato una star alla Simeon Career Academy, la stessa scuola superiore da cui era uscito Derrick Rose. Per entrambi, l’esperienza al college era stata giusto una formalità, una tappa obbligatoria prima di sbarcare nel mondo a cui appartenevano per natura: la NBA. Wiggins aveva passato qualche mese con i Kansas Jayhawks del ‘santone’ Bill Self, mentre Parker aveva vestito la maglia dei Duke Blue Devils, guidato dalla ‘leggenda vivente’ Mike Krzyzewski. Il primo incontro fra le due squadre, svoltosi il 12 novembre 2013 allo United Center di Chicago, aveva attirato un’attenzione mediatica paragonabile alla sfida del 2002 tra la Saint Vincent-Saint Mary High School di LeBron James e la Oak Hill Academy di Carmelo Anthony. Il loro contemporaneo approdo ‘al piano superiore’ veniva addirittura paragonato a quello di Larry Bird e Magic Johnson, datato 1979.
L’ambita ‘lotteria’ era stata vinta dai Cleveland Cavaliers, che avevano selezionato Wiggins, mentre i Milwaukee Bucks di una giubilante Mallory Edens (figlia del proprietario Wes e protagonista assoluta della draft lottery 2014) si erano assicurati i servigi di Parker. Da quel momento, i percorsi dei due attesissimi prospetti si sono separati, ma nessuno di loro, fino a questo momento, è riuscito a mantenere le enormi aspettative. Wiggins è finito ai Minnesota Timberwolves, tra le contropartite dell’operazione che ha portato Kevin Love ai Cavs. L’inizio della sua esperienza NBA è stato molto promettente; 16.9 punti di media nella stagione da matricola (culminata con l’elezione a Rookie Of The Year), 20.7 l’anno successivo, addirittura 23.6 nel 2016/17.
In quella stessa stagione, Parker aveva fatto registrare 20.1 punti a sera, ma al termine di un percorso leggermente più travagliato. Il suo primo anno era durato la miseria di 25 partite, poi era stato messo k.o. da una lesione al legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro, che lo aveva tenuto fermo per quasi un anno. Una volta rientrato, Jabari sembrava finalmente riuscito a trovare continuità dal punto di vista fisico e tecnico; nel 2015/16 aveva disputato ben 76 partite, viaggiando a 14.1 punti di media, e nella stagione successiva, di fianco alla star emergente Giannis Antetokounmpo, era apparso sul punto di esplodere. Il 9 febbraio 2017, però, lo stesso infortunio subito allo stesso ginocchio aveva dato un’altra, devastante mazzata alla sua giovane carriera. Ancora dodici mesi di stop, poi un breve e modesto rientro (31 partite a 12.6 punti di media), quindi la decisione da parte dei Bucks di ritirare la qualifying offer sul suo ultimo anno di contratto, lasciandolo di fatto senza squadra. Nell’estate del 2018, il tentativo di redenzione era partito dalla sua Chicago. I giovani Bulls puntavano anche su di lui per continuare la loro risalita verso i playoff, ma qualcosa era andato storto. In campo, Parker sembrava un giocatore ritrovato (14.3 punti e 6.2 rimbalzi di media), ma quando coach Fred Hoiberg era stato rimpiazzato da Jim Boylen, Jabari era finito ai margini delle rotazioni. Lo scorso febbraio, era stato spedito a Washington nella trade che aveva portato a Chicago Otto Porter. Anche in maglia Wizards, aveva messo insieme buone cifre; 15 punti di media e il massimo in carriera per rimbalzi (7.2) e percentuale dal campo (52%). I 20 milioni di dollari che gli sarebbero spettati nel 2019/20 avevano però spinto la franchigia a declinare la team option, rendendolo nuovamente free-agent.
Il 2017 ha rappresentato (fino a questo momento) l’apice della parabola anche per Andrew Wiggins. L’arrivo di Jimmy Butler a Minneapolis, che avrebbe dovuto lanciare definitivamente i T’Wolves, aveva di fatto ‘chiuso’ il canadese, le cui medie realizzative erano calate vertiginosamente (17.7 punti di media nel 2017/18, 18.1 nella stagione successiva). Wiggins e Karl-Anthony Towns, l’altra giovane star della squadra, non avevano mostrato l’intensità e l’agonismo richiesti da ‘Jimmy G. Buckets’ e da coach Tom Thibodeau, e nello spogliatoio di Minnesota si erano create fratture insanabili. Dopo gli addii di Butler e Thibodeau (quest’ultimo sostituito da Ryan Saunders, con cui Wiggins pare abbia un rapporto molto stretto), la stagione era già compromessa; niente playoff, e la sensazione di un progetto fallito clamorosamente era sempre più forte.
Alla vigilia di questo 2019/20, la carriera di Wiggins e Parker sembrava giunta su un binario morto. Invece, nei primi mesi di regular season, i due ex ‘fenomeni generazionali’ stanno mostrando segnali molto incoraggianti. In una versione dei Timberwolves libera da eccessive pressioni e con ambizioni più modeste rispetto al recente passato, Andrew sta giocando il suo miglior basket. I 24.8 punti, 5.1 rimbalzi e 3.3 assist a sera rappresentano il suo massimo in carriera, ma sono la fiducia nei propri mezzi e l’attitudine a prendersi la scena quando conta (come in occasione delle vittorie contro Miami, Golden State, Detroit e San Antonio) a far intendere che qualcosa sembra cambiato per davvero.
Parker ha trovato casa ad Atlanta, dove è diventato una certezza nel quintetto di coach Lloyd Pierce. In assenza dello squalificato John Collins, si è imposto come ‘secondo violino’ degli Hawks, dietro al giovane leader Trae Young. Anche in questo caso, le cifre sono degne di nota (16 punti e 6.4 rimbalzi di media), ma gli aspetti più incoraggianti sono il ritrovato entusiasmo e la consapevolezza di potersi ancora ritagliare un ruolo importante in una franchigia NBA. La partita-manifesto della sua ‘rinascita’ è stata quella del suo ritorno a Milwaukee da avversario, chiusa con 33 punti, 14 rimbalzi e, chissà, qualche rimpianto da parte di una franchigia che non ha potuto permettersi di aspettarlo.
Senza dubbio, né Wiggins né Parker si trovano in un contesto competitivo. Mettere insieme buone cifre in un’eterna incompiuta come Minnesota (che si sta ‘sgonfiando’ dopo un promettente avvio di stagione) o in una squadra in piena ricostruzione come Atlanta non permette una valutazione obiettiva sul loro valore assoluto come giocatori. Con ogni probabilità, entrambi dovranno cambiare aria, magari reinventarsi ulteriormente dal punto di vista tecnico-tattico, per fare qualcosa di rilevante in NBA. L’importante, però, è che la loro stella non si sia ancora spenta, nonostante tutto. Quel “1995” segnato sulle rispettive carte d’identità parla chiaro: la loro avventura nella lega migliore al mondo è appena cominciata. Di nuovo.