Lo confesso, ho sempre avuto un debole per lui. Come a volte mi è successo in passato, tra me e Jayson si è creato quel legame invisibile che nasce tra tifoso e atleta nel momento in cui lo vedi giocare prima che arrivi alla tua squadra preferita e pensi “sì, farebbe proprio al caso nostro”. Di Jayson avevo visto qualche partita a Duke pensando che un realizzatore “alla Pierce” sarebbe stato molto utile ai Celtics della ricostruzione. E poi poco tempo dopo, quasi per caso, mi ero ritrovato davanti alla TV a guardare un episodio di Sport Science su Discovery Channel: il “bambino” dimostrava di poter gestire un raggio difensivo superiore a quello di Kawhi Leonard e poi schiacciava agevolmente con cotta e armatura da trenta chili. Sì, avrebbe fatto comodo ai Celtics, e quando il diabolico Danny Ainge al draft del 2017 non solo se lo accaparra ma ottiene anche una prima scelta futura, il gioco è fatto.
Da quel momento l’ascesa del numero 0 è stata irresistibile. Nell’anno da matricola si è rivelato uno dei cardini dello splendido “volo” fino alle finali di Conference, nella seconda stagione ha migliorato le sue cifre nonostante il campionato interlocutorio dei Celtics, nella terza è diventato un All Star e con oltre 23 punti di media a partita si sta confermando come leader della squadra. Nell’ultima “swing” a Ovest Boston ha vinto tre partite su quattro sfiorando il successo contro i Lakers allo Staples Center. E proprio in quell’occasione LeBron James lo ha definito “an absolute problem”, un problema reale.
Le parole del Re hanno ricordato quelle di un altro grande in gialloviola, Shaquille O’Neal, che dopo una sfida contro Boston il 13 marzo 2001 in termini piuttosto coloriti aveva posto il suo imprimatur su Paul Pierce, regalandogli il “nickname” di “The Truth” che lo ha accompagnato per la durata della sua carriera. Allo Staples Center Pierce ne aveva messi 42, Tatum ne ha segnati 41, un grande Laker li ha elogiati entrambi… ”Coincidenze? Io non credo”…
Jayson ha completato la trasferta a 34.5 punti di media a partita tirando con ottime medie (56.6% complessivo, 55.8 da tre) e catturando quasi 8 rimbalzi a allacciata di scarpe. E’ stato il vero leader del gruppo in assenza-Walker, costringendo l’ufficio statistica dell’NBA agli straordinari: nelle tre gare con Lakers, Blazers e Jazz è risultato il primo Celtic in oltre trent’anni a segnare 30 o più punti in tre partite di fila con il 60% (o più) al tiro. Siccome l’ultimo a riuscire nell’impresa nel marzo del 1987 era stato tale Kevin McHale, è evidente che con questo ragazzino ci troviamo di fronte a qualcosa di importante, alla definitiva consacrazione di un campione. Dopo la sua prima convocazione all’All Star Game è salito ulteriormente di colpi fino a raggiungere una continuità ad alto livello che ricorda parecchio quella dell’ultima grande ala bostoniana, Paul Pierce. Ed il premio potrebbe arrivare puntuale perchè l’atleta è il candidato principale al trofeo di MVP della Eastern Conference per il mese di febbraio.
Le doti offensive sembrano in qualche modo oscurare il fatto che il ragazzo da St.Louis è una presenza anche sull’altro lato del campo, quello che “vince le partite”. L’apertura alare di 211 centimetri gli permette di infastidire ogni avversario, e la superlativa mobilità laterale gli permette di cambiare su avversari più piccoli senza perdere in efficacia. La sua “assertività” sia in attacco che in difesa non diventa però imposizione, e i Celtics sembrano apprezzarlo soprattutto dopo le recenti esperienze con…altri compagni di squadra. Tutte doti da leader, da “alpha dog”.
Jayson Tatum sembra possedere quella rara e innata dote comune alle superstar: la capacità di interpretare le partite per comprendere come volgerle a vantaggio proprio e della propria squadra.
Gli capiterà ancora di dover portare la sua squadra sulle spalle, ma ha già dimostrato più volte che il peso di non lo preoccupa, sia esso un’armatura che un tiro da tre all’ultimo secondo.
Auguri, Jayson.