Volenti o nolenti (nolenti, senz’altro nolenti) stiamo vivendo un momento storico, la prima vera pandemia dopo la terribile “influenza spagnola” del 1918-1920, sviluppatasi in un mondo in guerra e in condizioni socio-sanitarie fortunatamente non paragonabili a quelle di oggi. Sia la società civile che lo sport, che ne è specchio, hanno reagito prendendo le necessarie contromisure per scongiurare l’avanzamento del morbo. La NBA è ferma da alcuni giorni, dopo che Rudy Gobert (prima del compagno di squadra Donovan Mitchell e di Christian Wood) è risultato positivo al nuovo Coronavirus. A proposito, “Darwin Award” ad honorem per Rudy, che con rarissima idiozia, solo due giorni prima aveva provocatoriamente toccato tutti i microfoni della sala stampa per dimostrare di non avere alcuna paura del virus.
Ciò detto, non si tratta del primo stop imposto alla NBA, anche se i due precedenti avevano motivazioni economiche e non sanitarie.
Il primo “vero lockout” (nel 1995 e 1996 ce ne furono un paio che non ebbero tuttavia conseguenze pratiche) è datato 1998 e durò per oltre sei mesi, dal Primo Luglio fino al 20 Gennaio 1999, quando finalmente giocatori e proprietari trovarono un accordo. Che era successo? Il contratto collettivo in vigore dal 1995, della durata di sei anni, conteneva una clausola per cui gli “owners” avrebbero potuto impugnarlo se, dopo tre stagioni, più del 51.8% degli incassi totali avessero dovuto essere destinati per pagare i salari. Al 1998 la percentuale era lievitata al 57% e metà delle franchigie dichiararono di aver concluso il campionato in passivo di bilancio (anche se il sindacato dei giocatori contestò questi dati). Il “caso” Kevin Garnett diede il colpo di grazia ad una situazione già instabile, grazie al contratto da 126 milioni di dollari spuntato ai Timberwolves…bisognava fare qualcosa, imponendo cambiamenti al salary cap e un tetto agli stipendi degli atleti.
Le contrattazioni iniziarono ma non ci furono alternative al muro contro muro: il primo risultato fu l’esclusione dei giocatori NBA dalla nazionale statunitense che avrebbe giocato i mondiali del 1998. Il 6 Agosto si riprovò un abboccamento, infruttuoso che portò all’annullamento di tutte le esibizioni pre-stagionali e al posticipo dei training camps. Anche ad Ottobre e Novembre non ci furono passi avanti, anzi, il 13 Ottobre, per la prima volta nella storia, arrivò la comunicazione che i tifosi non avrerebbero mai voluto ascoltare: prime due settimane cancellate, per 99 partite in totale. Ogni riunione terminava invariabilmente in un nulla di fatto, anzi, la crescente ostilità reciproca rendeva sempre più difficile ogni tentativo di discussione. L’antivigilia di Natale Stern avvertì che avrebbe richiesto l’annullamento della stagione nel caso in cui non si fosse trovato un accordo entro il 7 Gennaio e a quel punto il fronte dei giocatori iniziò a dividersi: era stato infatti riconosciuto che gli stipendi garantiti non sarebbero stati dovuti durante il lockout e una intera annata persa avrebbe significato tanti soldi persi per tanti atleti, specie quelli più pagati e, quindi, più importanti e carismatici. Dopo 204 giorni, il 20 Gennaio, il documento fu firmato e la stagione potè iniziare, decurtata di 32 partite e senza All Star Game. Sarebbero stati i San Antonio Spurs a spuntarla, con una cavalcata trionfale che li vide primeggiare in regular season e dominare i playoffs, dove vennero sconfitti solo due volte su 17 partite giocate.
Il secondo stop è assai più recente e anche i lettori più giovani (se non giovanissimi), probabilmente lo ricordano, non essendo ancora trascorsi 10 anni: parliamo infatti del 2011. Di nuovo il motivo fu del tutto “venale” e nacque allo scadere del contratto collettivo del 2005: i proprietari proposero di ridurre la percentuale di incassi di competenza dei giocatori dal 57 al 47%; troppo per il sindacato degli atleti, che erano disposti ad abbassarlo solo fino al 53%. All’epoca, giovi ricordarlo, il giro di affari del campionato più bello del mondo ammontava già a oltre 4 miliardi di dollari, quindi anche un punto percentuale significava (e significa tutt’ora) “un sacco di soldi”. Ancora una volta la NBA affermò che la gran parte delle squadre avevano chiuso in rosso, ben 22 su 30, Inoltre, pure il mecanismo del salary cap era oggetto di diatriba: le franchigie avrebbero voluto un “hard” salary cap, sfrondandolo dalle varie eccezioni che ne consentivano lo sforamento senza troppi problemi, cosa ovviamente osteggiata dai giocatori…la distanza si rivelò da subito enorme, come ammesso da Billy Hunter, capo dell’associazione degli atleti.
Il Primo di Luglio venne decisa la serrata, che si prolungò fino a Natale quando venne trovato l’accordo con una rimodulazione delle “revenues” e del salary cap, anche se non si arrivò alla versione “hard” originarialemte richiesta dai proprietari. La stagione 2011/12 fu limitata a 66 partite e furono i Miami Heat di LeBron Jam,es, Dwyane Wade e Chris Bosh ad avere la meglio dopo aver superato in semifinale i Boston Celtics con un combattutissimo 4-3 ed aver disposto con maggior facilità della coppia Russell Westbrook/James Harden e dei loro Oklahoma City Thunder.