Il cielo sopra New York era di piombo in quella giornata di fine giugno 1975. Il Boeing 727 della Eastern Airlines proveniente da New Orleans era in “finale”, come gli addetti ai lavori chiamano l’ultima fase dell’avvicinamento per l’atterraggio. Erano le 16:05 quando un fenomeno di “windshear” provocò un’improvvisa perdita di quota e l’aereo si schiantò a meno di un chilometro dalla pista numero 66 dell’aeroporto JFK.
Kevin Loughery, coach dei New York Nets, stava distrattamente guardando la televisione quando tra le immagini delle lamiere contorte e dei rottami gli parve di vedere una sacca con i colori della sua squadra. Telefonò a Julius Erving, la stella dei Nets, e gli chiese dove fosse Wendell Ladner. “Doctor J” gli rispose che Wendell era andato in Louisiana per degli spot pubblicitari…era la triste conferma che il popolare atleta era tra le 113 vittime del disastro aereo…
Wendell era nato a Necaise Crossing, un piccolo borgo ad una ventina di chilometri dalle acque del Golfo del Messico, dove il padre aveva una piantagione di cotone. Wendell e i suoi amici non perdevano occasione per giocare a basket. La città più vicina, del resto, era Gulfport e si trovava ad un’ora di macchina…e siccome nessuno aveva l’età per la patente e non c’erano mezzi di trasporto, le attività preferite erano due: il basket e la caccia al cinghiale. Quando arrivava la sera e si faceva buio al campetto, non c’erano problemi, si attingeva alla catasta di legna e si accendeva un bel falò che illuminasse il canestro.
Per un attimo, visto il fisico che stava sviluppando, aveva pensato di lasciare il basket per il football, ma poi una stagione da 37 punti a partita, 40 vittorie e 3 sconfitte per il liceo North Hancock con annesso titolo statale del Mississippi e inclusione nella squadra All America gli aveva fatto cambiare idea. Dopo il college a Southern Misssissippi, l’NBA non gli aveva prestato molta attenzione, forse per qualche chilo di troppo. E così si era risolto a firmare un contratto per i Memphis Pro dell’ABA: a sorpresa era stato la ragione principale per cui Memphis aveva raggiunto i playoffs. Sul campo da basket era energia pura: tirava malino da tre, ma giocava con grande intensità e difendeva con una ferocia senza eguali. Ogni palla vagante doveva essere sua e spesso si gettava a terra o tra il pubblico per recuperarla. Nella sesta partita dei playoffs del 1973 Wendell si tuffò su un pallone finendo per schiantarsi contro un distributore d’acqua la cui boccia finì in frantumi. In un attimo l’atleta fu coperto del suo stesso sangue, mentre una signora in prima fila sveniva. Venne accompagnato in spogliatoio dove gli furono applicati 48 punti di sutura, ma siccome era un tipo tosto chiese di tornare in campo. Per fortuna coach Babe McCarthy ebbe il buon senso di tenerlo in panchina.
Qualche tempo dopo il reporter Terry Stembridge intervistò l’allenatore e la conversazione scivolò sul “water cooler incident”. “Sembra che Wendell non conosca il significato della parola paura”, notò Stembridge, e McCarthy rispose “Vero, ma se è per questo non conosce il significato di molte altre parole”.
Il suo vocabolario, in effetti era piuttosto limitato: Dan Issel diceva che Wendell parlava solo di donne e di basket…e di basket poi non tanto. Aveva…amicizie femminili in ogni città e quando andò a vivere nello stesso condominio del New Jersey in cui abitava il compagno Julius Erving la sua leggenda si ingigantì. Una mattina “Doctor J” lo vide correre verso la spiaggia e gli chiese se non fosse presto per un bagno. Ladner gli rispose che si era dimenticato di avere lasciato una ragazza a casa, era tornato con un’altra e ora le due stavano azzuffandosi per decidere chi avrebbe potuto rimanere. “Torno fra un po’, Doc”…
Portava un paio di folti e curatissimi baffi e si definiva “Wonderful Wendell”: a fini pubblicitari nel periodo in cui giocava per i Kentucky Colonels gli era stata scattata una foto per un poster “piccante”. Ladner posava steso su una panchina davanti a una fila di armadietti, mentre un pallone da basket gli copriva il basso ventre. Non era però una foto volgare: i pantaloncini da gioco erano chiaramente visibili, ma la posa e il sorriso di chi la sa lunga erano stati sufficienti e far sparire il poster dalle edicole…a dimostrazione che quello delle “desperate housewives” pruriginose non è un fenomeno recente, in America.
Era un difensore duro e implacabile e nel tempo aveva sviluppato la fama di “fighter”, di uno che non si tira indietro quando scoppia una rissa. Assieme a John Brisker – ucciso nel corso di una rivoluzione in Uganda mentre faceva da guardia del corpo al feroce dittatore Idi Amin Dada – era il più temuto nell’ABA e spesso i due si scazzottarono dando vita a incontri di pugilato all’interno di un incontro di basket.
Ma nel basket di quegli anni Wendell forniva alle sue squadre solidità e tranquillità: chi avrebbe alzato un dito su Erving o su uno degli altri Nets, sapendo che poi avrebbe dovuto fare i conti con Wendell? Vinse un titolo a New York, fu due volte All Star ABA, eppure i suoi compagni di allora giurano che il basket e le risse non fossero la sua dote migliore. La sua morte scosse l’intera lega e anche dall’NBA giunsero parecchi messaggi di cordoglio.
Il funerale venne celebrato a Necaise Crossing, nella chiesa a poche centinaia di metri dal campetto in cui Wendell e i suoi amici accendevano il falò per giocare anche col buio. Parteciparono oltre 600 persone e in quello sperduto paesino del sud c’era un solo nero, Julius Erving, che nell’elogio funebre diede grande conforto alla famiglia. Molte signore vestite a lutto piangevano, quel giorno. C’era anche coach Babe McCarthy, che mentre usciva dalla chiesa continuava a stropicciarsi gli occhi per tenere a bada le lacrime: “Che modo assurdo, per andarsene”.