Stati Uniti 1953, esterno, sera: gli ultimi ritardatari a bordo delle Chevrolet Convertibili o delle Ford Sunliner prendono posto all’interno del Drive In: oggi è in programma un western…
E’ in questo contesto ormai lontano nel tempo che Marion Robert Morrison, in arte John Wayne, regala il suo inequivocabile physique du role al film “Hondo”, lungometraggio solido ma non certo indimenticabile, il cui merito più evidente è quello di dare lo spunto per la creazione di uno dei soprannomi più evocativi affibbiati ad un giocatore di basket. E’ così che John Havlicek, grazie al colpo di genio di Mel Nowell (compagno del Nostro nella rappresentativa statale) diventa per sempre “Hondo”.
Havlicek ci ha lasciati quasi un anno fa, il 25 Aprile del 2019, dopo una lunga battaglia con il morbo di Parkinson; tristemente ironico per un campione dal fisico di acciaio, che in ognuna delle 16 stagioni vissute ha sempre giocato per almeno 71 partite. 13 volte All Star, una volta MVP delle finals, primatista per punti segnati ai Boston Celtics per oltre un trentennio prima di essere sopravanzato da Paul Pierce, 8 titoli NBA, sempre accompagnato dalla fedele casacca bianco-verde numero 17.
Ma veniamo alla storia di questo incredibile campione, capace di fare da collante tra due stagioni leggendarie dei Celtics, a partire dagli anni ’60 dei Russell e dei Cousy fino agli anni ’70 di Cowens e Jo Jo White. John nasce a Martins Ferry, in Ohio l’ 8 Aprile del 1940 e già ai tempi della High School dimostra di essere un predestinato trasformando in oro ogni oggetto sferico che gli capita a tiro: basket, baseball o football non fanno differenza, il suo smisurato talento e il suo ancor più smisurato agonismo ne fanno una perfetta macchina sportiva. Lo dimostra l’esperienza al college, allorquando, abbandonato il football nonostante le eccellenti doti di quarterback, sceglie il diamante come suo habitat nell’anno da freshman (media battute valide .400, non noccioline), salvo poi “ravvedersi” per passare al mondo della palla a spicchi. In quel periodo, compagni di squadra di Havlicek ai Buckeyes sono nientemeno che il futuro all star Jerry Lucas e Larry Siegfried, altra vecchia conoscenza bostoniana, oltre a Bobby Knight, che passerà alla storia come l’allenatore con più partite vinte in NCAA, a quell’epoca solo una riserva…talento non comune per una squadra che avrebbe vinto a mani basse il titolo nel 1960 e sfiorato il bersaglio grosso anche nei due anni successivi, per un rispettabilissimo totale di 78 vittorie e solo 6 sconfitte.
John è il secondo violino di Ohio State, sempre all’ombra del grande Jerry Lucas, ma è un secondo violino di classe e molti scout gli hanno messo gli occhi addosso. Sono i Celtics ad accaparrarselo al draft del 1962, con la chiamata numero 7. La squadra, nell’ultimo lustro, ha dominato la scena in maniera quasi tirannica, cinque campionati vinti in sei anni. Tutto rose e fiori, dunque? Non tanto: anche i campioni invecchiano, Bob Cousy sta per iniziare quello che sarà l’ultimo anno da professionista, Bill Sharman e Jim Loscoutoff non sono più di primo pelo. Stimatissimi esperti hanno già date per morte le chance di titolo; in questo senso è memorabile la messa da requiem suonata da Sports Illustrated alla vigilia: “I Boston Celtics sono una squadra vecchia, nelle cui vene varicose scorre ormai solo sangue stanco”.
Lo stesso Auerbach anni dopo ammetterà che le sue aspettative su “Hondo” non erano altissime: si sarebbe accontentato di un onesto sostituto dell’anziano Frank Ramsey, proficuamente utilizzato come sesto uomo negli anni passati…e comunque in senso molto lato “Red” aveva ragione: sesto uomo, si, ma ciò che forse non aveva previsto è che sarebbe stato giudicato dai posteri come “Il miglior sesto uomo di ogni tempo” e uno dei più completi all around players.
Il suo segreto è il perfezionismo quasi maniacale, in campo come fuori: l’aneddotica è fittissima, dalla fissazione per i vestiti piegati sempre alla stessa maniera fino a quella di riporre le scarpe esattamente nel medesimo posto. Trasferite questi comportamenti in un campo di basket e otterrete un uomo che, semplicemente, non accetta che qualcosa possa non quadrare e lavora giorni, settimane, mesi, se necessario, perchè tutto sia come deve essere. Alla fine, al secondo anno risulta il miglior marcatore della squadra in regular season, con 19.9 punti a partita, viene inserito nel secondo quintetto NBA e convince tutti che quella pick numero 7 dell’anno precedente è stata una benedizione. Ah, i Celtics ovviamente portano a casa un altro banner, il settimo, con buona pace di Sports Illustrated.
Havlicek viene impegato in tre ruoli e ciò consente una varietà di soluzioni sia offensive che difensive assolutamente fuori del comune: alto 1.97 centimetri per 92 chilogrammi, un moto perpetuo straordinariamente rapido, è in grado di mettere la contesa sul piano fisico con le guardie e sulla velocità con le ali, risultando sovente incontenibile e costringendo gli avversari ad aggiustamenti continui e difficoltosi che non fanno altro che regalare spazio alle altre punte di diamante della formazione biancoverde, peralto riuscendo raramente a venire a capo del problema originale, ovvero “Come diavolo lo fermo il 17”? Il suo agonismo oversize ne fa quella “dinamo umana” che può sfiancare il “nemico”, i back to back ripetuti diventano uno dei suoi marchi di fabbrica: lo si trova facilmente prima a rimbalzo difensivo, poi a raccogliere l’assist per il layup, poi ancora a raddoppiare in difesa, il tutto in dieci secondi, con la massima lucidità, e decine di volte in una partita. Il campionato 1964-65 sembra destinato ad essere una passeggiata di salute, ed effettivamente la regular season dei Celtics è trionfale, con 62 vittorie e solo 18 sconfitte. John ha ormai raggiunto una dimensione definita, magari non è ancora il tiratore velenoso dei tempi maturi, ma la fiducia dei compagni e di Auerbach sono ormai acquisite: pur nel suo ruolo di sesto uomo, sfiora i 30 minuti di utilizzo per 18.3 punti a partita. Gli eroi sono ancora altri, ma sarà lui a lasciare il segno più evidente, in collaborazione con un’altra leggenda: lo storico cronista Johnny Most.
La scenografia è quella delle grandi occasioni: gara 7 contro i rivali storici dell’Est, Philadelphia che han nell’immenso Wilt Chamberlain la punta di diamante di una squadra che può contare su fuoriclasse del calibro di Hal Greer e Chet Walker, una squadra che senza Boston tra i piedi si sarebbe potuta togliere ben altre soddisfazioni. Ebbene, quei Sixers impegnano allo spasimo i biancoverdi, fino a portarli, appunto, a gara 7. La partita è tirata, ma proprio nel finale i campioni in carica sembrano poterla far propria senza troppi patemi: sette punti di vantaggio quando manca poco più di un minuto sono un bottino assolutamente tranquillizzante, senonchè Chamberlain decide di ribellarsi alla sorte apparentemente avversa e trascina i suoi fino al meno uno. 110-109, 5″ secondi alla fine, rimessa Phila. I giocatori si piazzano in campo, Russell naturalmente cura Wilt; Hal Greer, palla in mano, cerca un compagno libero: K.C. Jones si piazza a pochi centimeti mulinando le braccia nell’intento di impedire la visuale all’ avversario, il quale scorge Chet Walker a 6-7 metri di distanza. L’ “arancia” parte nella sua direzione e in quell’istante ad Havlicek scatta quel misterioso interruttore che solo i fuoriclasse posseggono, quello che ti fa decidere in una frazione di secondo la cosa giusta da fare. Scatta in quella direzione, alza le braccia, anticipa Walker e gli soffia la palla. E qui entra in gioco Johnny Most, che regala ai microfoni il celeberrimo: “Greer is putting the ball into play. He gets it out deep…Havlicek steals it. Over to Sam Jones…Havlicek stole the ball…It’s all over! Johnny Havlicek stole the ball…It’s all over, it’s all over”, la voce che sale di tono rapidamente fino ad esplodere quando il furto è perpetrato, finchè i primi tifosi si buttano in campo per festeggiare l’ennesima finale ragiunta, finale che sarà ancora una volta vinta, quasi passeggiando, contro i soliti Lakers, con un netto 4-1.
Il 1966 è l’anno della prima convocazione alla partita delle stelle, la prima di tredici consecutive, fino al ritiro. Nel 1967 gioca una regular season magistrale, scavallando per la prima volta i 20 punti di media in carriera (21.4), ma un po’ per le difficoltà dovute al cambio di allenatore (Bill Russell), un po’ per i Sixers in forma smagliante, ci si ferma in finale di Conference, sconfitti 4-1 dalla Ditta Chamberlain e Co. poi vincitrice del titolo. Lo smacco viene restituito con gli interessi un anno dopo, ancora in finale di Conference, quando, dopo essere stati sotto per 3-1, in una gara 7 da tramandare ai posteri, l’ex “non tiratore”, come Cousy lo definì al suo arrivo (e, badate bene, all’epoca Bob aveva del tutto ragione) mette a referto 40 punti, contribuendo in maniera fondamentale al 100-96 finale, viatico per l’ennesima finale strappata a Los Angeles.
L’anno successivo gli avversari in finale sono i Lakers stellari di Chamberlain, West, Baylor e i Celtics vengono da una regular season modesta (rispetto alle precedenti), con solo 48 vittorie. Le prime due gare, nonostante “Hondo” segni 82 punti, si chiudono entrambe con vittoria gialloviola. Sembra finita. Non lo è. Alla terza occasione mette a referto altri 34 punti nonostante un occhio gonfio come un limone per una manata di Keith Erickson e la serie si riapre. Si arriva alla settima. John mette anima e corpo in campo coprendo chilometri, raddoppiando, tirando, gettandosi a rimbalzo. Per lunghi tratti è l’unico riferimento offensivo. La partita è vinta, i banners dei Celtics sono 11, 6 nella “era Havlicek”.
Ma la fine della dinastia, questa volta, arriva inesorabile: Sam Jones e Russell appendono le scarpe al chiodo, Heinsohn diventa coach e i miracoli non sono merce che si trova facilmente: John abbandona il ruolo di sesto uomo, e questo priva i tifosi del Garden di quello spettacolo nello spettacolo che era osservarlo in attesa di entrare in campo: tuta slacciata, appoggiata alle spalle, come un centometrista pronto allo scatto, sapendo che nel momento in cui fosse entrato, la partita sarebbe inesorabilmente cambiata. Gioca sempre ad alti livelli, ma i risultati di squadra non arrivano, almeno fino all’esplosione di un’altra generazione di campioni, essenzialmente Dave Cowens e Jo Jo White. L’anno buono potrebbe essere il 1973, ma proprio un infortunio alla spalla subito da “Hondo” lo costringe ad alzare bandiera bianca in finale di Conference contro i Knicks e senza il suo apporto non c’è nulla da fare.
Nel 1974 continua a martellare le retine avversarie con 22.4 punti a partita in regular season, che si impennano fino a 27.1 nei playoff, in un crescendo che ormai non sorprende più nessuno. Questa volta la rituale finale di Conference contro i Knicks è una passeggiata di salute che si chiude sul 4-1, ma la finale sembra assai complessa, con il duo di Milwaukee Jabbar-Robertson ad attendere i Celtics. Si arriva alla sesta sul 3-2, Hondo ne segna 36 compreso il canestro dell’86 pari che forza la gara all’overtime, ma non è finita: nel primo supplementare i Bucks si trovano ancora avanti quando mancano pochi secondi alla fine: Chaney ruba palla e serve John, marcato da Kareem… il tiro non è facile e infatti si stampa sul ferro; sembra finita, ma la sua rettivutà è fuori del comune: prende il rimbalzo lungo e la mette dentro per il pareggio che vale il secondo overtime. Anche qui si carica la squadra sulle spalle, segnando 9 punti degli 11 complessivi messi a referto dai suoi. Nonostante tutto un maligno gancio di Jabbar porta la finale allo spareggio. All’ultimo atto non brilla particolarmente in fase offensiva, anche se 16 punti per il “non tiratore” degli inizi sarebbero stati un bottino comunque notevole, ma si impegna in una difesa sovrumana su Robertson, contribuendo in maniera decisiva a “spegnerlo”. Il trionfo è netto, 102-87 e i Celtics tornano sul tetto del mondo dopo soli cinque anni dall’addio del grande Russell; molto del merito và ad un commosso “Hondo”, nominato MVP delle finals, che dichiara: “This is the greatest one”. Le sue cifre sono ormai in calo, ma c’è ancora spazio (e classe) per irrompere nella storia dalla porta principale. Siamo nel 1976, John non è più il giocatore che non esce mai dal campo: Cowens, White e Charlie Scott lo sopravanzano, anche se stiamo comunque parlando di quasi 35 minuti ad ingresso in campo; pure nei playoff spesso sono altri a godersi la ribalta, ma quando la storia chiama, a rispondere “presente” è ancora lui.
Stiamo parlando della “Greatest Game Ever”, gara 5 delle “Finals” contro i sorprendenti Suns di John MacLeod: “Hondo” ha un piede acciaccato, si allena poco e male ma vuole, deve esserci. I programmi sono di giocare per una ventina di minuti, giusto per tenere sul chi vive gli avversari. Ne gioca 58, con la ciliegina del miracoloso canestro a una mano che porta il risultato sul 110-109 e scatena il pandemonio alla fine del secondo overtime, tra squadre che rientrano negli spogliatoi credendo finita la contesa, tifosi in campo, rientro e l’incredibile pareggio sul 111 pari. Dopo tre supplementari è un 128-126 storico che spalanca le porte al 4-2 del “game, set and match”, del banner numero 13 per la franchigia del Massachusetts e numero otto per Havlicek.
I titoli sono terminati, ma non la voglia di calcare il parquet di questo eterno maratoneta: gioca ancora per due stagioni, mai come una vecchia gloria, sempre correndo avanti e indietro, per una media punti di 17.7 e 16.1 a partita. Ovunque si trovino i Celtics, Est o Ovest, per lui ci sono solo applausi.
Nel 1980 giunge il doveroso inserimento nell All time team dell’ NBA in occasione dei 35 anni dell’associazione, riconoscimento rinnovato 15 anni dopo, per i 50 anni. Nel 1983 entra di diritto nella Hall Of Fame. Più di tutto, però, valgano le parole di Red Auerbach, che, parlando del “Suo Hondo”, dichiara: “Incarna il bene. Se avessi un figlio come John sarei l’uomo più felice della terra”.