Larry McNeill.
Immagino parecchi sopraccigli alzati. E’ del tutto comprensibile…McNeill è stato un giocatore di basket, non una stella: fu “uno dei tanti”, scelto al secondo giro del draft 1973 dai Kings; passò 6 anni nella lega, quasi sempre da comprimario prima di cercare fortuna in Europa e nelle Filippine, dove avrebbe segnato anche 88 punti in una partita. Larry ebbe il suo quarto d’ora di celebrità quando, esattamente 45 anni fa, il 13 Aprile del 1975, firmò un record che dura tuttora, un incredibile 12/12 dal campo contro i Chicago Bulls, in gara 2 del primo turno di playoffs (e in gara-1 aveva già fatto 6/6). La prodezza fu fine a se stessa, perchè gli valse, è vero, l’iscrizione nel libro dei record (mai nessuno ha fatto meglio in postseason), ma non servì ad abbattere Chicago che passò il turno per 4-2.
All’epoca i Kings erano i “Kansas City-Omaha Kings”, una delle cinque reincarnazioni della franchigia. Sappiamo che i cambi di sede sono pane quotidiano (o quasi) per la NBA e in alcuni casi portano a risultati abbastanza curiosi, come per gli stessi Los Angeles Lakers, nati a Minneapolis dove i laghi esistono davvero, oppure come i Memphis Grizzlies, prima a Vancouver e trasferiti poi in Tennessee dove gli unici Grizzlies popolano gli zoo (forse), per tacere degli Utah Jazz: quale città più di Salt Lake City, patria dei mormoni, richiama meglio le sonorità di John Coltrane e Duke Ellington?
Tornando a noi, i quattro traslochi dei Kings rappresentano anch’essi un record, perchè nessun’ altra squadra ha subito così tanti lifting. Solo i Wizards ci sono andati vicini, trasformandosi da Chicago Zephyrs a Baltimore Bullets, a Capital Bullets, a Washington Bullets fino a Washington Wizards, ma le ultime tre “identità” sono semplici variazioni anagrafiche, essendo nel frattempo la sede rimasta nella Capitale.
Se parlassimo di calcio i Kings sarebbero una squadra di provincia. Una lunga parabola, sempre lontani dalle grandi metropoli e quasi sempre lontani dalle zone nobili delle classifiche. All’ inizio della stagione 2019/20 erano 13 gli anni consecutivi senza qualificazione ai playoffs, un’eternità.
La marcia cominciò nel 1948 a Rochester, 300000 abitanti (all’epoca), nello stato di New York. Il Padre della franchigia è un personaggio leggendario, Les Harrison, non solo fondatore, ma anche allenatore della squadra, che riuscì a portare al titolo per la prima ed unica volta nella storia.
I Royals, questo il nome originario, nascono già con le stimmate della sofferenza, con un bacino di utenza ridotto e un’ arena già vecchia e piccolissima (Edgerton Park vede la luce nel 1892 e può ospitare solo 5000 persone). Inoltre la stessa NBA nei suoi burrascosi albori assiste al nascere e allo spegnersi di squadre con una facilità impressionante (e preoccupante). Eppure i giocatori ci sono: l’asse Arnie Risen-Bob Davies è uno dei più letali della lega…il primo una minuscola e velocissima (per i tempi) point guard, il secondo un classico “centrone” dominante. All’esordio solo i Minneapolis Lakers di George Mikan fermano la corsa dei ragazzi di Harrison, nelle “Division finals”, quella che oggi è la finale di Conference. Il coach, durante i suoi 7 anni di panchina, non manca mai la postseason, con il fiore all’occhiello del successo nel 1951, in finale nel derby contro i Knicks, una serie incredibile dapprima dominata dai Royals che vanno agevolmente sul 3-0, poi dai newyorchesi che sfiorano l’impresa tornando sul 3-3. Gara-7 termina 79-75 con Risen autore di una prestazione da 24 punti e 13 rimbalzi.
Tuttavia i risultati non bastano per portare soldi in cassa, nonostante il trasloco nel più capiente Rochester War Memorial anche perchè, terminato il ciclo Risen/Davies, anche i risultati cominciano a venire meno. Tre annate perdenti consecutive sono il colpo di grazia ed Harrison, su pressione della lega, decide di spostarsi a Cincinnati, un balzo di 500 miglia a sud-ovest, in Ohio.
Dopo qualche anno di vacche magre le cose cominciano a girare per il verso giusto, soprattutto grazie alla prima scelta del 1960 che si traduce nell’acquisizione di una delle leggende del basket, Oscar Robertson (va detto che i Minneapolis Lakers alla 2 scelgono Jerry West, prima di Darrall Imhoff, “Satch” Sanders, Lenny Wilkens, insomma, un discreto draft). Nel giro di un biennio la squadra diventa una contender, con l’apporto di un’altra coppia di campioni, Wayne Embry e Jerry Lucas. Purtroppo la sfortuna ha un nome, Boston Celtics, un’avversaria troppo forte per chiunque in quel decennio e i sogni di gloria si spengono contro Russell ed Auerbach in Finale di Division, nel 1963 (3-4) e nel 1964 (1-4, nonostante l’arrivo, appunto, di Lucas).
La seconda metà degli anni ’60 è ancora un periodo di declino: la franchigia viene venduta e i nuovi proprietari, i fratelli Jacobs, pensano bene di far giocare alcune partite casalinghe a Cleveland (i Cavaliers non esistono ancora), portando al disamoramento dei tifosi di Cincinnati. A questo si aggiunge la crisi tecnica, tra risultati negativi e la cessione delle stelle Robertson e Lucas.
Senza tifosi e dopo 5 anni di mancate qualificazioni ai playoffs diventa inevitabile un altro trasloco e, nel 1972, i Royals si trasferiscono a Kansas City, altre 600 miglia nella progressiva migrazione dalla costa est alla costa ovest. In realtà la sede è Kansas City/Omaha e le partite a domicilio si giocano in entrambe le città. Di più, per evitare confusione con i Royals del baseball, si cambia anche il nome, nel per noi più familiare “Kings”. Si scelgono due città per avere un mercato più ampio, ma dopo tre stagioni ci si convince a far base unicamente a Kansas City e a costruire un palazzetto più grande (la Kemper Arena) anzichè dividersi tra il Municipal Auditorium e l’Omaha Civic Auditorium, nessuno dei quali arriva a 10000 posti.
Largo quindi ai “Kansas City Kings”, quarta reincarnazione. La bandiera, nella prima parte di questa fase storica, è Nate “Tiny” Archibald, piccola, letale e prolificissima point guard, ma in dieci stagioni nel Missouri la squadra riesce a qualificarsi ai playoffs solo per 4 volte con migliore risultato una finale di conference nel 1981: Archibald non c’è più da un pezzo, i leader sono Otis Birdsong, Sam Lacey e Scott Wedman e il cammino si ferma di fronte agli Houston Rockets (1-4).
A partire dalla fine dei ’70, una serie di “sfortune”, dall’indebolimento del roster (i Cavs “soffiano” ai Kings Wedman e Birdsong a suon di milioni), passando per il crollo del tetto del palazzetto durante un uragano, dalla radiazione del GM a qualche scelta discutibile al draft, abbattono ancora le quotazioni della squadra fino al campionato 1984/85, quando la media degli spettatori nelle partite casalinghe è di 6500 unità, poco anche per le serie minori.
Inevitabile l’ennesima migrazione, ancora verso Ovest, a Sacramento, una storia che dura ancora ai giorni nostri, una storia di trentacinque anni che, ahimè, porta ai tifosi ben poche soddisfazioni se si eccettua un breve momento di gloria tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio, grazie ad una squadra competitiva che può contare su talenti del calibro di Chris Webber, Peja Stojakovic e Vlade Divac. Quella formazione guadagna i playoffs per 8 anni consecutivi, con 5 stagioni ad almeno 50 vittorie e una finale di Conference nel 2002, l’annata migliore, dove il quintetto composto da Divac, Webber, Stojakovic, Christie e Bibby di fatto sfiora il titolo. L’Ovest è nettamente più forte dell’Est ed è piuttosto chiaro che la vera finale NBA è quella della Western Conference. I Kings vengono sconfitti per 4-3 dai fortissimi Lakers del duo O’Neal/Bryant e solo ai supplementari di gara 7. Le finals, come previsto, sono solo una passerella con i losangelini che dispongono dei Nets con un comodissimo 4-0.
Dal 2002 inizia la lunga discesa che porta ad una serie infinita di ricostruzioni, di fallimenti e di campionati frustranti: 13 anni senza playoffs, 8 volte sotto le 30 vittorie, non esattamente quello che Les Harrison, inserito nella Hall of Fame e morto ultranovantenne nel 1997, si sarebbe aspettato quando portò la sua squadra al titolo in quel lontanissimo 1951.