Molti appassionati sono certamente già informati del documentario su Michael Jeffrey Jordan, disponibile da oggi su Netflix e del quale Superbasket si è già occupato nella giornata di ieri. Il 20 Aprile è tuttavia un’altra data importante per “MJ” e i suoi moltissimi tifosi: il giorno in cui venne posata la prima pietra di una leggenda, il giorno in cui mise a segno 63 punti al Boston Garden, 63 punti ad una delle squadre più forti di sempre e che avrebbe vinto il titolo, 63 punti che fecero pronunciare a Larry Bird, non esattamente un tipetto facile ai complimenti, una delle frasi rimaste nell’immaginario collettivo del mondo baskettaro: “Era Dio travestito da Michael Jordan”.
La storia parte da lontano, da una piazza prestigiosa che si è affacciata alla NBA con 20 anni di ritardo: Chicago ci aveva provato già nel 1946, ma gli Stags erano falliti dopo un triennio; anche il secondo tentativo era andato maluccio: i Packers erano nati nel 1962, erano diventati gli Zephyrs nel 1963 per poi essere ricollocati a Baltimore e poi a Washington (si, stiamo parlando dei Wizards). Il terzo “shot” era andato a segno, nel 1966, con i Bulls. La franchigia, fino a metà degli anni ’80, si era barcamenata tra anni buoni e meno buoni, senza tuttavia mai raggiungere nemmeno una finale di Conference.
Il destino cambia nel 1984, non senza un pizzico di aiuto dalla Dea Bendata, quando la scelta numero 3 al draft del Madison Square Garden di New York cade su Michael Jordan da North Carolina. Fortuna? Si, perchè Houston e Portland, titolari delle pick numero 1 e 2, hanno entrambe bisogno di un centro e, se i Rockets hanno gioco facile accaparrandosi Hakeem Olajuwon, i Trail Blazers vanno in confusione puntando sull’onesto Sam Bowie, compiendo uno dei dieci più grossi errori nella storia del draft, secondo Fox Sports, la peggiore scelta secondo ESPN e Sports Illustrated. Si poteva fare meglio, insomma, anche perchè, en passant, sarebbero stati disponibili anche Charles Barkley e John Stockton.
Al primo anno Jordan vince a mani basse il titolo di Rookie of The Year, viene convocato per l’ All Star Game e porta una squadra non eccelsa ai playoffs piazzando una media di 28.2 punti, 5.9 assist e 6.5 rimbalzi a partita, con il 51.5% dal campo. Lecito aspettarsi un 1985 con i controfiocchi, ma purtroppo la sfortuna ci mette lo zampino: all’esordio ne mette 33 ai Cavs, poi 29 ai Pistons e 12 ai Warriors. 12? Si, perchè gioca solo 18 minuti, dopodichè cade malamente e si frattura un piede. E’ l’inizio di Novembre, dovrebbe saltare un paio di mesi di basket giocato ma rientra il 15 Marzo a stagione ampiamente compromessa (soprattutto per il timore della dirigenza di rischiare inutilmente il suo campione). Contribuisce tuttavia al rush finale di 5 vittorie nelle ultime 8 partite che valgono in extremis a strappare l’ultimo posto buono per i playoffs, anche se l’avversario, i temibili Boston Celtics di Larry Bird/Robert Parish/Kevin McHale, è di quelli che lasciano ben poche speranze.
Gara-1 al Garden si conclude con un comodo 123-104 per i padroni di casa, nonostante Jordan segni 49 punti. Sembra già tanto, ma tre giorni dopo, Domenica 20 Aprile 1986, “His Airness” compie il capolavoro “quasi” perfetto (“quasi” perchè i Bulls usciranno di nuovo sconfitti).
Michael parte di slancio e solo nel primo quarto fa 17 (e due assist, per buon peso) sui 33 totali della squadra, che torna in panchina avanti di 8. Al rientro il numero 23 non c’è, d’altronde il coach, Stan Albeck, dovrà pure dargli qualche minuto di riposo; capita così che Bird, attivatosi dopo un primo tempo un po’ sonnacchioso, suoni la carica fino al -2 (41-43). Finito il pit stop, Jordan torna in campo e con 6 punti contribuisce all’allungo dei bianco-rossi che vanno all’intervallo lungo sul 58-51. Nel terzo periodo ne segna altri 13 (e sono 36) e i suoi mantengono un leggero vantaggio (91-88). Infila canestri in ogni modo, è ovunque, a rimbalzo offensivo (4) e difensivo (5), subisce una marea di falli e dalla lunetta è una sentenza (19/21 alla fine); quando viene raddoppiato confeziona l’assist (6 in tutto).
Nell’ultimo quarto sale addirittura di colpi, ne mette 18 dei 25 di squadra, per un totale di 54 nei tempi regolamentari. Schiaccia su Parish e Bird, stoppa lo stesso Parish e poi McHale…soprattutto, sfrutta un fallo dello stesso Kevin allo scadere (assai dubbio, va detto) per mettere i due liberi del 116-116 che portano la contesa all’overtime. Qui i Bulls cedono, troppo forti i padroni di casa, ma il 23 è l’ultimo ad alzare bandiera bianca, dopo due supplementari. Ironia della sorte, allo scadere del primo è proprio MJ a sbagliare il canestro decisivo, anche se negli ultimi 10 minuti, nonostante tutta la difesa dei Celtics sia concentrata su di lui, trova comunque il modo di segnare oltre la metà dei punti di Chicago, 9 su 15.
In tutto Fanno 63 in una gara di playoffs, la somma di quelli messi a segno da Bird e McHale, due in più rispetto al precedente record di un’altra leggenda, Elgin Baylor, che in una lontana gara 5 di finale, ancora contro i Celtics, ne aveva piazzati 61 per i suoi Los Angeles Lakers. La serie finisce 3-0 per Boston, che vincerà il titolo, ma per quanto riguarda quel 20 Aprile, si, ha ragione Larry, è davvero “Dio travestito da Michael Jordan” e lo dimostrerà ancora per mille volte, attraverso anelli e riconoscimenti, addirittura quando, dopo tre anni di “pensionamento” e a quasi 40 anni, riuscirà a mantenere medie di 20 e più punti con i Wizards.