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      Perché “The Last Dance” non mi convince appieno…

      Come ci viene raccontato “l’ultimo valzer” di Jordan e compagni?

      Fabio Anderle by Fabio Anderle
      4 Maggio 2020
      in NBA, Scrollbar, UOMINI
      0
      Perché “The Last Dance” non mi convince appieno…
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      Mi sono avvicinato a “The Last Dance”, il documentario sui Chicago Bulls del campionato 1997-98, con la curiosità di tutti i tifosi. Più o meno gli argomenti chiave di quel campionato sono noti: l’antipatia tra Michael Jordan e il GM Jerry Krause, le manovre di Phil Jackson per il controllo dello spogliatoio, l’insoddisfazione di Scottie Pippen sono tutti “topic” che prima o poi abbiamo incontrato nelle letture degli ultimi vent’anni.

      Ecco perché da questa serie ci si aspettavano approfondimenti, aneddoti, immagini inedite e opinioni personali più “spinte”, visto che ormai i fatti sono lontani ed il “quieto vivere” non aveva più ragione di esistere. Sebbene il menù sia ricco sotto ogni punto di vista, la storia manca di obiettività. E scusate se è poco.

      In un lavoro storico credo che sia “conditio sine qua non” riportare i fatti in modo oggettivo: certo, le opinioni personali fanno sempre parte della storia, ma di essa rappresentano solo una fetta, mentre per assaporare “l’intera torta” avremo bisogno del resto, delle interpretazioni di chi “stava dall’altra parte”. E se queste non sono più disponibili, sta allo storico interpretare ciò che è accaduto. Un esempio chiaro in tal senso è la “querelle” tra Scottie Pippen ed il “front office” dei Bulls, soprattutto Jerry Krause. E’ risaputo che verso la fine del contratto da rookie Pippen si vide offrire un’estensione quinquennale da 18 milioni di dollari: le regole dell’epoca erano molto più semplici e non proteggevano i giocatori…ma non proteggevano nemmeno le proprietà. Nonostante i consigli di chi gli stava intorno, l’atleta firmò l’accordo anche perché aveva bisogno sicurezza finanziaria per aiutare la propria famiglia (11 fratelli di cui uno infermo più il padre malato), e nel 1997 pagava ancora gli effetti di quella scelta che si era rivelata una delle più disastrose nella storia NBA: in quel campionato Pippen percepiva il sesto stipendio dei Bulls e il 122° dell’intera lega, nonostante i cinque titoli e le sei apparizioni all’All Star Game. Andrebbe però ricordato che quando l’accordo venne stipulato, esso rendeva Scottie il sedicesimo atleta più pagato dell’NBA.

      Rappresentava perciò un rischio per il front office dei Bulls, perché se all’atleta fosse successo qualcosa o si fosse semplicemente “accontentato” del livello raggiunto fino a quel punto, la squadra avrebbe dovuto continuare comunque a corrispondergli uno stipendio da sedicesimo giocatore della lega. In altre parole, c’era un certo “rischio d’impresa”, basterebbe pensare a come uno di più promettenti giocatori scelti dai Bulls, Jay Williams, si sarebbe rovinato la carriera in un incidente motociclistico solo cinque anni dopo.

      Quando nel giro di un paio d’anni fu chiaro che era ornai diventato una delle stelle dell’NBA, Pippen andò a bussare alla porta di Krause e Jerry Reinsdorf, proprietario dei Bulls per chiedere un aggiornamento del contratto, ma i due fecero orecchie da mercante.

      Ed è qui che “The Last Dance” sceglie i suoi buoni e i suoi cattivi: se è vero che lo stipendio del numero 33 era ormai clamorosamente inadeguato alle performance, è anche vero che i due stavano utilizzando lo spazio salariale creato da esso per costruire la squadra che stava dominando l’NBA. Il salary cap nella stagione 1997-98 era fissato a quota 26,9 milioni: Michael Jordan ne percepiva oltre 33.

      Ecco un riassunto dei salari dei sei Bulls più pagati in quel campionato:

      Michael Jordan           33,14 milioni

      Ron Harper                  4,56 milioni

      Toni Kukoć                 4,56 milioni

      Dennis Rodman          4,50 milioni

      Luc Longley                3,18 milioni

      Scottie Pippen            2,77 milioni

       

      Il totale salari era di 66,3 milioni, il più alto della lega: come metro di paragone, la finalista a Est, gli Indiana Pacers, erano a quota 39,1 milioni e gli Utah Jazz finalisti pagavano 28,5 milioni. In mancanza di un meccanismo limitante come la luxury tax (che sarebbe stata istituita solo cinque anni dopo, nel 2003) il front office dei “Tori” aveva un monte stipendi enorme per l’epoca.

      In parole povere, se Chicago avesse accordato a Pippen un contratto da 15/20 milioni annui, non avrebbe avuto modo di prendere a bordo o trattenere i vari Kukoć, Rodman, Harper e Longley (come successo con Horace Grant!)…e la caccia ai titoli per Phil Jackson si sarebbe decisamente complicata.

      Ecco, ciò che per ora manca in “The Last Dance” è proprio questo: un’analisi a 360° dei fattori che hanno determinato i rapporti tra gli “attori” di questa splendida storia. E’ facile interpretare il punto di vista dei “vincenti” che per definizione hanno sempre ragione, e del resto un Jordan, un Jackson, un Pippen hanno il sacrosanto diritto a esprimere la propria opinione. Ma un buon lavoro storico non dovrebbe dimenticare che ogni medaglia ha due facce e che se “l’altra campana” è ferma (nel caso di Pippen per la morte di Krause nel 2017) è suo dovere farla suonare.

      Un’ultima considerazione: alla fine della sua permanenza a Chicago, Reinsdorf e Krause prima di cedere Pippen agli Houston Rockets gli rinnovarono il contratto permettendogli di percepire 32 milioni sotto forma di incentivi (oltre ai 45 milioni “base”): 77 milioni di buoni motivi per evitare di sputare su chi, seppur con tutti i limiti e i difetti, aveva creduto in un allampanato ragazzo dalla misconosciuta Central Arkansas University.

      Tags: Fabio AnderleJerry KrauseJerry ReinsdorfMichael JordanPhil JacksonScottie Pippen
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