Tempo fa abbiamo analizzato il percorso di alcuni fra i convocati per l’All-Star Game 2009, notando come la partecipazione alla gara sia coincisa con l’inizio del loro declino. Un anno più tardi si è svolto un altro evento che, a posteriori, sembra aver portato con sé una sorta di ‘maledizione’: il draft 2010. Un’edizione piuttosto povera, soprattutto se paragonata ai draft immediatamente precedenti e a quello successivo. Dal draft 2010, finora, sono usciti appena quattro All-Star, accomunati da un beffardo destino: la loro carriera è stata interrotta sul più bello da un grave infortunio.

Con la prima scelta assoluta, gli Washington Wizards selezionano John Wall, esplosiva point guard da Kentucky, e su di lui costruiscono la squadra. Wall si afferma presto come uno dei giocatori più spettacolari della lega e, dal 2014 in avanti, fa presenza fissa all’All-Star Game. Washington esce pian piano dall’oblio in cui era caduta al tramonto dell’era-Gilbert Arenas. Dopo due quinti posti, altrettante eliminazioni al secondo turno e un passaggio a vuoto nel 2015/16, Wall e gli Wizards vivono la migliore stagione del loro connubio. Nel 2017, John entra nel terzo quintetto All-NBA e guida i suoi a un’epica semifinale di Conference contro i Boston Celtics. Isaiah Thomas e compagni vincono in sette partite, ma l’immagine-simbolo della serie la regala Wall, in piedi sul tavolo del referto dopo aver deciso gara-6 con una gran tripla. Malgrado la sconfitta, Washington e il suo playmaker sembrano ben avviati sulla strada per la grandezza.
In estate, Wall firma una maxi-estensione contrattuale da 170 milioni di dollari in quattro anni. La nuova fase dell’esperienza di Wall nella capitale è vissuta all’insegna dei problemi fisici. Nel 2017/18 salta 41 partite per una serie di interventi di pulizia al ginocchio sinistro, ma il peggio arriva nella stagione successiva. Tormentato dai dolori al tallone sinistro, a dicembre Wall decide di operarsi, ma l’intervento gli provoca un’infezione. A far precipitare (letteralmente) le cose, ecco una caduta tra le mura domestiche: rottura del tendine d’Achille, sogni di gloria infranti e carriera a rischio. A quasi un anno e mezzo di distanza dall’incidente, su un suo eventuale ritorno in campo non ci sono ancora indicazioni precise.
In estate, Wall firma una maxi-estensione contrattuale da 170 milioni di dollari in quattro anni. La nuova fase dell’esperienza di Wall nella capitale è vissuta all’insegna dei problemi fisici. Nel 2017/18 salta 41 partite per una serie di interventi di pulizia al ginocchio sinistro, ma il peggio arriva nella stagione successiva. Tormentato dai dolori al tallone sinistro, a dicembre Wall decide di operarsi, ma l’intervento gli provoca un’infezione. A far precipitare (letteralmente) le cose, ecco una caduta tra le mura domestiche: rottura del tendine d’Achille, sogni di gloria infranti e carriera a rischio. A quasi un anno e mezzo di distanza dall’incidente, su un suo eventuale ritorno in campo non ci sono ancora indicazioni precise.
Il draft 2010 è un punto di svolta anche per i Sacramento Kings, che con la quinta chiamata scelgono DeMarcus Cousins, compagno di Wall a Kentucky. In quanto a talento puro e potenza e bagaglio tecnico, ‘Boogie’ avrebbe poco da invidiare ai migliori centri della storia NBA. Tra il 2013 e il 2017, viaggia stabilmente oltre i 22 punti e gli 11 rimbalzi di media, mette a curriculum due partite da almeno 55 punti e 12 rimbalzi, implementa un repertorio già sconfinato con un affidabile tiro da tre punti e disputa tre All-Star Game. Il lato oscuro della medaglia, però, finisce spesso per prendere il sopravvento. Cousins colleziona falli tecnici e squalifiche, si fa notare per gli accesi diverbi con compagni, avversari, dirigenti e giornalisti e fa scappare da Sacramento una allenatore dopo l’altro. Nonostante le sue grandi performance, i Kings gravitano perennemente nei bassifondi della Western Conference. A febbraio 2017, la dirigenza decide che è ora di voltare pagina. Subito dopo l’All-Star Game, DeMarcus viene spedito ai New Orleans Pelicans. Al fianco di Anthony Davis, la sua carriera sembra svoltare. Sul piano individuale domina come sempre: viaggia a 25 punti e 12.7 rimbalzi di media, e il 22 gennaio 2018 fa registrare una tripla-doppia da 44 punti, 24 rimbalzi e 10 assist contro i Chicago Bulls. Per la prima volta, gioca in una squadra competitiva: New Orleans chiude con la testa di serie numero 6 a Ovest. Ai playoff, però, Cousins non ci arriva: il 26 gennaio, dopo aver completato l’ennesima tripla-doppia contro gli Houston Rockets, si rompe il tendine d’Achille. Il miglior momento della sua carriera si interrompe così. In piena riabilitazione, accetta fra le polemiche un ingaggio ‘a basso costo’ dai Golden State Warriors, bi-campioni NBA in carica. Quella che si preannuncia come una ‘passeggiata’ verso un sicuro anello inizia solo a gennaio. Neanche il tempo di cominciare i suoi primi playoff, che DMC è di nuovo ai box per un problema al quadricipite. Rientra durante le Finals, ma gli incerottati Warriors vengono sconfitti dai Toronto Raptors. In estate, ‘Boogie’ firma con i Los Angeles Lakers ma, durante un workout di preparazione, gli salta il legamento crociato del ginocchio sinistro. Sulla sua carriera da incompiuto si addensano nubi temporalesche.

Con la scelta numero 9 al draft, gli Utah Jazz selezionano Gordon Hayward, che in breve tempo diventa la punta di diamante del nuovo corso. Sotto la guida di Tyrone Corbin, Hayward emerge come l’uomo-franchigia, ma è con l’arrivo in panchina di Quin Snyder che lui e i Jazz prendono il volo. Nel 2016/17, il numero 20 debutta all’All-Star Game e guida i suoi fino alle semifinali di Conference. In estate diventa free-agent e lascia i tifosi di Salt Lake City con l’amaro in bocca; sceglie i Boston Celtics di coach Brad Stevens, suo allenatore e mentore ai tempi di Butler University. Il popolo biancoverde è in fermento: il suo arrivo e quello di Kyrie Irving rendono i Celtics dei credibili candidati al titolo. I sogni di gloria si infrangono a soli cinque minuti dal debutto. Hayward tenta una schiacciata al volo, atterra male e ammutolisce la Quicken Loans Arena di Cleveland. La gamba sinistra si contorce in modo spaventoso: tibia fratturata e caviglia slogata. Compagni e avversari pregano, mentre lui, sotto shock, viene portato via in barella. Torna in campo dopo un anno, ma è solo l’ombra della stella di un tempo. Regala comunque qualche sprazzo di talento e, nel 2019/20, le sue prestazioni migliorano notevolmente, ma i rimpianti per un prime interrotto in quel modo tormenteranno a lungo molti appassionati di basket.
Solo una, tra le stelle entrate nella lega dal draft 2010, è riuscita a lasciarsi davvero alle spalle un grave infortunio. Scelto con la decima chiamata, Paul George soppianta in breve tempo lo sfortunato Danny Granger (una delle ‘vittime’ dell’All-Star Game 2009) come leader degli Indiana Pacers. Nel 2013 debutta all’All-Star Game e viene eletto Most Improved Player Of The Year, poi trascina la squadra di Frank Vogel alle finali di Conference. I Miami Heat dei ‘Big Three’ hanno la meglio e si ripetono nel 2014, ma Indiana si rivela un’avversaria all’altezza. Con la partenza di LeBron James da Miami e la crescita di George, il futuro sembra tutto dalla parte dei Pacers. E’ in quel momento che l’oscura ‘maledizione’ del draft 2010 colpisce. George si unisce al raduno di Team USA in vista dei Mondiali di Spagna. Durante una partitella, nel tentativo di stoppare James Harden, atterra con la gamba destra sul sostegno del canestro. La scena è da pelle d’oca: tibia e perone si spezzano di netto.
Paradossalmente, quello di George è il ‘migliore’ (fra mille virgolette) tra gli infortuni subiti dagli All-Star del draft 2010. Legamenti e muscoli non vengono coinvolti, così PG13 rientra in campo già sul finire della stagione 2014/15. Negli anni seguenti, riesce a riprendere il sentiero interrotto. Torna a livelli stellari con Indiana e si prende la rivincita con la nazionale, vincendo l’oro a Rio 2016. Nel 2017 passa agli Oklahoma City Thunder, dove cresce ulteriormente. Nel 2018/19 arriva terzo nelle votazioni per l’MVP, poi approda, insieme a Kawhi Leonard, ai Los Angels Clippers, nel tentativo di coronare col titolo NBA un percorso che, a un certo punto, sembrava finito in un vicolo cieco.

Tra i giocatori di rilievo usciti da questo draft, l’unico ad avere un anello al dito non è neanche stato scelto. La storia di Jeremy Lin, passato dal divano del compagno Landry Fields alle copertine di tutto il mondo, è ormai celebre. E’ forse meno noto che anche la sua carriera sia stata rovinata dagli infortuni. Sul più bello, proprio come per i suoi sfortunati compagni di draft. Il primo arriva proprio al culmine della ‘Linsanity’, quel folle periodo, tra febbraio e marzo del 2012, in cui il ragazzo di origine cino-taiwanese conquista la fama globale. Il 24 marzo, Lin è costretto a interrompere la sua stagione da sogno per una lesione al menisco. Non indosserà mai più la maglia numero 17 dei New York Knicks. Il secondo, come a chiusura di un sinistro cerchio, si verifica sempre a New York, ma stavolta al Barclays Center. Jeremy ha disputato un ottimo 2015/16 con gli Charlotte Hornets, poi ha firmato per i Brooklyn Nets. La sua prima stagione sull’altra sponda dell’East River è stata condizionata dai problemi fisici, che lo hanno limitato a 36 apparizioni. Il suo 2017/18 dura esattamente quanto quello di Hayward. Alla prima uscita stagionale, contro gli Indiana Pacers, subisce una lesione al legamento crociato del ginocchio destro. Esce dal campo fra le lacrime e gli sguardi attoniti di compagni, avversari e pubblico. Proprio come successo a Hayward, George e Cousins, il cui percorso nella NBA è iniziato lo stesso giorno: quello del draft 2010.