Moltissimi lettori di superbasket, appassionati di NBA, sanno che le franchigie sono mobili, parecchie si sono spostate negli anni alla ricerca di pubblico, soldi, investitori; qualcuno sa certamente che i Golden State Warriors sono alla loro terza reincarnazione: nati cestisticamente a Philadelphia, sono diventati i San Francisco Warriors all’alba degli anni ’60 per poi assumere un decennio dopo l’attuale denominazione. La squadra ha vinto sei titoli in tutto, tre nel recentissimo periodo d’oro che ha visto Steph Curry e compagni raggiungere per cinque anni consecutivi la finale, due agli albori della NBA e uno, quello di cui ci occuperemo in queste righe, nella metà degli anni ’70, più precisamente nel 1975.
Perchè il titolo del 1975? Cosa ha di particolare? Si tratta, molto semplicemente, di una delle più grandi sorprese della storia cestistica statunitense…il Curry del 1975 si chiamava Rick Barry, per chi non lo avesse mai visto su un campo di basket, un fenomeno: già all’università (Miami), aveva chiuso l’anno da senior con oltre 37 di media, proponendosi come uno dei bersagli più ambiti del draft a venire, peraltro uno dei più ricchi che si ricordino (oltre a Barry facevano parte del lotto altri grandissimi come Gail Goodrich, Bill Bradley, i fratelli Van Arsdale e Billy Cunningham). I Warriors se lo accaparrarono senza pensarci troppo con la seconda scelta e non se ne pentirono. All’inizio di quello storico campionato Barry aveva 29 anni ed era alla seconda esperienza ad Oakland, dopo una parentesi piuttosto lunga alla ABA, la lega alternativa che negli anni ’70 fece concorrenza spietata ai “fratelli maggiori”, per lungo tempo riuscendo anche ad avere quelle disponibilità economiche fondamentali per attirare grandi campioni. Aveva già in carniere 8 stagioni da professionista con 8 All Star Games giocati, 7 volte a più di 25 punti di media in stagione, tre volte sopra i 30, 2 volte miglior tiratore di liberi della lega, (sarebbero stati 7 a fine cariera, come peggior prestazione un 86.2%). Una particolarità curiosa, indirizzava i tiri liberi “da sotto”, una cosa che ai giorni nostri fa indubbiamente specie. Forse parliamo della miglior ala passatrice dopo Larry Bird…una macchina da canestri con un talento infinito ed un unico difetto: il carattere difficile che forse gli ha impedito di essere ancor più grande di quello che è stato.
OK, Golden State ha vinto il titolo per merito di un fenomeno…e allora dove sarebbe la sorpresa? La sorpresa è che, essenzialmente, quel gruppo era formata da Rick Barry e “altri 4”, altro che “big three”. Non solo, l’anno precedente la squadra non si era nemmeno qualificata per i playoffs, nonostante un record non disprezzabile di 44 vittorie e 38 sconfitte (solo le prime quattro all’epoca passavano alla postseason). E non è ancora tutto: il GM Dick Vertlieb, anzichè rafforzare l’organico per il torneo successivo, smantellò tutto lo smantellabile, cedendo Nate Thurmond (altro Hall of Famer anche se trentaduenne) a Chicago, non rinnovando il contratto a Cazzie Russell (agli appassionati di oggi il nome potrebbe non dire nulla, ma nel 1974 era stato una delle colonne dei Warriors con 20 di media) e lasciando partire via “expansion draft” la guardia Jim Barnett, un elemento importante in uscita dalla panchina.
Al posto di Thurmond, in un cambio che aveva fatto storcere il naso ai tifosi, era arrivato Clifford Ray (che i tifosi dei Celtics ricorderenno nello staff tecnico dell’anno del titolo 2008), altra pasta rispetto al collega. Per chiudere il cerchio, nemmeno le scelte al draft parevano essere state particolarmente ispirate: la 11 era stata spesa per Jamaal Wilkes, un’ala sottodimensionata che in molti giudicavano inadatta per la NBA…ed avrebbero avuto torto, sarebbe diventato un giocatore completo, un difensore con i fiocchi capace anche di segnare, tre volte All Star e Hall of Famer.
Insomma, se ad Oakland vi avessero sentito parlare di titolo nell’ ottobre del 1974, vi avrebbero fatto un biglietto di sola andata per il manicomio più vicino. Fatte tutte le dovute premesse per rendere l’idea, il quintetto titolare che coach Al Attles si preparava a schierare era composto dunque, oltre che da Barry, da Clifford Ray, Butch Beard, Jamaal Wilkes (o Charles Johnson, scelto al SESTO giro nel 1971) e Derreck Dickey. Confrontando questi nomi con i Celtics di John Havlicek, Jo Jo White e Dave Cowens o i Washington Bullets di Elvin Hayes, Wes Unseld e Phil Chenier, la differenza salta all’occhio. Intendiamoci, va bene il miracolo, ma va ricordato che l’ovest, all’epoca era assai meno competitivo dell’est.
La stagione regolare andò decisamente bene, ben oltre le aspettative della vigilia: iniziata con 17 vittorie nelle prime 24 partite e terminata con 48 “W”. Barry fu, ovviamente, straordinario, capace di 30.6 punti a partita con il 46.4% dal campo (il tiro da tre, giovi ricordarlo, era ancora copyright dell’ABA e l'”arco” non disegnava ancora i campi della NBA), 6.2 assist, il 90.4% dalla lunetta e quasi 3 palle rubate a partita. Alle sue spalle, l’ottimo Wilkes, nominato Rookie dell’anno, si fermò a 14 punti di media, qualcosa come un’era geologica di ritardo. Rick fu tuttavia “solo” quarto nelle votazioni per l’ MVP, superato da tre straordinari centri, Bob McAdoo, Dave Cowens e Elvin Hayes.
I Playoffs ad ovest si presentavano incerti più che mai, con quattro squadre in bilico tra le 48 (Golden State, appunto) e le 43 vittorie (Seattle). Il primo turno vide proprio i Warriors contro i Sonics, vincitori dei Pistons nel preliminare: finì 4-2 per i ragazzi di Attles, che fecero il break decisivo giusto in gara-6 a Seattle, 105-96 grazie, nemmeno a dirlo, ai 31 di Barry, ma anche alle 8 stoppate di George Johnson, giovane centro che era stato preferito in corso d’opera a Clifford Ray. La finale di conference vide Golden State contro Chicago, la nuova squadra dell’ ex Nate Thurmond e fu una serie combattutissima, conclusa sul 4-3, doo che i Bulls si erano trovati sul 3-2 con il match point in casa: Barry fece 36 (su 86 totali), 8 rimbalzi e 7 rubate in gara-6, poi “solo” 23 in Gara-7, dove fu sopravanzato da Wilkes (24).
La finale sembrava dover essere solo una formalità per i fortissimi Bullets, giustizieri nell’altra finale di conference dei campioni in carica, i Boston Celtics: Washington aveva vinto 60 partite in stagione regolare, in una conference molto più forte; presi singolarmente, 4/5 dei titolari erano nettamente superiori agli omologhi della Baia. C’era un solo problema all’orizzonte, ovvero che il giocatore più forte degli avversari (Barry), si sarebbe trovato di fronte l’anello debole dei Bullets (Mike Riordan, peraltro un discreto difensore). Cosa poteva andare storto? In effetti fu un 4-0 piuttosto comodo…ma incredibilmente a favore dei Warriors: in Gara-1 Barry ne mise 24 e dalla panchina Phil Smith, rookie che in stagione non era arrivato ad 8, ne fece 20. Poteva essere solo un passo falso per i favoriti Bullets, ma Rick, dopo una partita “normale”, salì in cattedra in maniera sontuosa, prima 36, poi 38 e, in ultimo, gli avversari ormai in confusione cedettero al fotofinish anche la quarta partita, per 96-95, lasciando gli increduli tifosi di Oakland a festeggiare un titolo che sapeva di miracoloso. Ad oggi, dopo la vittoria dei Rockets nel 1995, con ogni priobabilità il più clamoroso “upset” nella storia delle Finals NBA.
MVP delle finals, naturalmente, il numero 24, Rick Barry, al primo ed unico trionfo in carriera.