“Dopo il sesto titolo nel 1998, Phil Jackson venne sostituito, Michael Jordan si ritirò di nuovo, Scottie Pippen venne scambiato, Dennis Rodman fu svincolato e Steve Kerr fu scambiato e iniziò la ricostruzione dei Bulls.” Così termina l’ultimo episodio della docu-serie The Last Dance, che ogni lunedì ci ha tenuti incollati a uno schermo, per cinque settimane. Una volta conclusa mi sono chiesto “cosa è successo dopo? Com’è proseguito il “rebuild” dei Chicago Bulls?”
THE DAY AFTER
La stagione seguente, di quella squadra iconica solo sei giocatori rimasero alla corte di Jerry Krause: Kukoc, Harper, Simpkins, LaRue, Booth e Wennington. Nonostante Reinsdorf abbia dichiarato di aver provato a offrire un altro anno ai protagonisti dell’ultimo ballo, le parole della dirigenza a inizio stagione stroncarono ogni slancio di ottimismo sulle sorti della squadra, anche sulle ali dell’entusiasmo dopo la vittoria del sesto titolo, Phil Jackson è stato lucido, rinunciando al rinnovo. Senza il loro guru, Jordan, Pippen e Rodman presero strade differenti, così la franchigia ripartì da quel nucleo guidato da Tim Floyd, pescato da Iowa State, che concluse la stagione con 13 vittorie e 37 sconfitte – ultimi nella eastern conferce. Una stagione segnata dal lockdown, la squadra non riuscì a decollare, trascinata dal solo Kukoc (18.8Pts) – 92.4 di offensive rating, rispetto al 107.7 della passata regular season.
IL DECLINO
L’anno seguente la dirigenza volle puntare su facce nuove e sul Draft. Con la prima scelta assoluta Krause selezionò Elton Brand, e grazie alla trade che coinvolse Luke Longley, alla sedicesima posizione scelse Ron Artest. Brand non si comportò neanche troppo male, per i primi due anni mantenne la media di 20 punti a partita e venne nominato rookie of the year. I risultati però tardarono ad arrivare, i Bulls collezionarono una sconfitta dopo l’altra, non andando oltre le venti vittorie stagionali per ben tre anni di fila. Nel 2001 dopo un inizio degno di un film horror (4W-21L), Floyd venne licenziato e sulla panchina di Chicago sedettero prima Bill Berry e poi Bill Cartwright, la squadra arrivò comunque ultima nella conference ma per la prima volta dal ’98 riuscì a vincere più di venti (21) gare in regular season. Nel 2002 Krause abbandonò la dirigenza dopo 18 anni e a lui subentrò Jhon Paxson. L’ex campione del primo three peat, dapprima GM e poi vicepresidente delle basketball operation (2009) riuscì attraverso alcuni scambi e buone scelte al draft a risollevare le sorti della squadra. Kirk Hinrich, Luol Deng, Joakim Noah e Ben Gordon sono alcuni dei nomi che, in anni differenti, portarono i Bulls nuovamente ai playoff. La svolta però arrivò nel 2008, con la prima scelta assoluta, Derrick Rose approda allo United Center.
RICOSTRUIRE, ANCORA
Grazie a Rose, i Bulls rinascono. In poche stagioni passano da 40 a 60 vittorie. Nel 2011, il numero uno di Chicago diventa MVP e la squadra raggiunge, dopo 13 anni le finali di conference. Chicago però non ha fatto i conti con i Miami Heat di LeBron James, che dopo una battuta d’arresto in gara1 asfaltano i rivali con un sonoro 4-1. L’anno seguente Derrick e compagni ci riprovano, i Bulls arrivano di nuovo ai playoff, sempre sotto la guida di Tom Thibodeau, ma nella prima gara contro i ‘76ers succede quello che non ti aspetti. I legamenti del crociato anteriore sinistro di Rose saltano e tutti vedono svanire il sogno del titolo. Da quel momento non solo Rose, ma l’intera squadra ha fatto fatica a riprendersi, nonostante innesti di sostanza e qualità come Butler, Gibson, Gasol e Mirotic, la franchigia della windy city non è riuscita a superare il secondo turno dei playoff. Fino ad arrivare ai giorni nostri e all’ennesimo rebuild.
Da Tom Thibodeau, a Fred Hoiberg, a Jim Boylen, da Zach LaVine, a Lauri Markannen, a Kris Dunn, passando per nomi illustri come Rajon Rondo e Dwyane Wade. I Bulls hanno continuato a cercare la quadratura del cerchio, hanno scambiato giocatori, hanno attinto dai free agent e pescato dal draft, ma a oggi nessuna formula ha dato i risultati sperati. L’unica nota positiva? Da 22 anni lo United Center è la seconda arena con il più alto numero di presenze in NBA (dietro al Madison Square Garden), con il 98.6% in media di pubblico ogni stagione. Sarà mica per la statua di Jordan appena fuori dal palazzo?
And the Bulls still rebuilding…