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      Un anniversario unico ed irripetibile

      Il 1 Giugno di 41 anni fa i Seattle Supersonics conquistavano il loro primo ed ultimo titolo NBA

      Angelo Merendi by Angelo Merendi
      1 Giugno 2020
      in NBA, Scrollbar, UOMINI
      0
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      Durante questo lockdown ci siamo trovati a dover nostro malgrado abbandonare l’attualità del basket per buttarci a ricordare episodi del passato, quando spopolavano i Drive In, oppure quando le battaglie per i diritti civili infiammavano le piazze, oppure ancora, proseguendo a grandi balzi, quando i primi personal computer “Commodore” invadevano il mercato, o le immagini dei Bird, dei Magic e dei Jordan cominciavano a frantumare la barriera dei continenti e a deliziare i sempre più numerosi appassionati sparsi per il mondo.

      Oggi ci sposteremo negli anni della disco music, la nostra colonna sonora sarà “Hot Stuff” di Donna Summer, l’immortale “My Sharona” dei The Knack, “Da ya think I’m sexy” di Rod Stewart, “Y.M.C.A.” dei Village People e se non state già muovendo i piedi davanti allo schermo, pazienza, vuol dire che non avete il senso del ritmo. Ci si può convivere.

      Ciò detto, l’anno è il 1979 e la NBA non versa in buone condizioni. Sports Illustrated, in un articolo di Febbraio, dal titolo “There’s an ill wind blowing for the NBA”, ha messo in chiaro ciò che in molti già sanno: passata la crisi della scissione che aveva portato al varo della ABA e poi alla sua fine, la Lega può dirsi “stabile”, come dichiarato da Larry O’Brien (l’allora commissioner). La stabilità è tuttavia un concetto che piace poco alla dinamica società americana; la stabilità è la porta d’ingresso per la stagnazione e le parole di O’Brien suonano già come una mezza ammissione di una crisi strisciante. Dodici franchigie su ventidue hanno avuto un calo di spettatori e anche gli ascolti televisivi fanno tremare dirigenti ed inserzionisti. Ciò che è peggio, proprio i grandi mercati sono quelli maggiormente in difficoltà: Philadelphia, Los Angeles, Chicago, New York. Mala tempora currunt…ci vorranno due ragazzi che si stanno per affacciare a quel mondo per risollevare “per sempre” le sorti del basket NBA, uno nero, l’altro bianco, uno in gialloviola, l’altro in biancoverde: Magic e Larry, giocatori giusti nelle squadre giuste, ed il miracolo è servito.

      Dicevamo: stagnazione, calo dell’interesse. Ovunque? Quasi ovunque: una delle poche eccezioni è Seattle: i Supersonics sono una franchigia ancora giovane, solo 11 anni di vita, ma già nel 1978 hanno raggiunto la finale. Il tifo, in quell’angolo decentrato di America è talmente caldo che nell’autunno del 1978 le partite casalinghe iniziano a non essere più giocate al Coliseum, 14000 posti e spiccioli, ma al “Kingdome” (il King County Domed Stadium), che di tifosi ne può ospitare 27894. Le presenze aumentano del 45% e il Kingdome, nel 1978/79, è un catino rumorosissimo. D’altronde succede spesso che la passione sia proporzionale alla fame di successi della piazza, piuttosto che al numero di trofei già in bacheca. In quei lidi della costa Ovest, alla fine dei “seventies” e tra i quattro sport maggiori si è vinto solo un titolo, conquistato mentre le truppe inglesi combattevano nell’odierno Iraq contro l’impero ottomano, lo zar Nicola II abdicava ed Arthur Arz Von Straussenburg diventava capo di stato maggiore dell’esercito Austro Ungarico (avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella disfatta italiana di Caporetto, 7 mesi dopo). No, io non sono impazzito, questo non è Focus Storia e voi avete letto bene: parliamo del Marzo 1917, quando i Metropolitans dell’hockey avevano sconfitto i Montreal Canadiens e conquistato la Stanley Cup.

      I Supersonics nascono nel 1967 e, sotto la guida di Lenny Wilkens e Bill Russell, iniziano presto un percorso di crescita che viene portato a termine nel miglior modo dallo stesso Wilkens: Lenny è stato già giocatore/allenatore fino al 1972, salvo abbandonare il doppio ruolo ed emigrare a Cleveland e poi a Portland per finire la carriera come playmaker. Viene richiamano a Seattle in veste di coach per sostituire Bob Hopkins dopo un inizio terribile nel campionato 1977/78, quando i giallo/verdi vincono solo 5 delle prime 22 gare. Lui accetta e con un rush degno del miglior Pietro Mennea (rimanendo tra gli atleti del tempo), ne vince 42 delle rimanenti 60 e porta addirittura la franchigia a giocarsi la finale NBA. Sfiora la vittoria, ma i suoi ragazzi vengono amaramente battuti in 7 partite dai più esperti Washington Bullets. La beffa è resa ancora più atroce dal fatto che la sconfitta nello spareggio arriva proprio in casa, davanti ai tifosi che già assaporavano il titolo.

      Il 13 Ottobre del 1978, dunque, la compagine che si appresta ad entrare in campo per l’opening contro i Chicago Bulls è pronta alla rivincita, motivata e sicura dei propri mezzi. Il gruppo è affiatato, si fida e segue alla lettera i dettami di Wilkens; inoltre può contare sul muro dei 30000 del Kingdome (barriera che sarà infranta durante i playoffs, se non in stagione regolare). La squadra è una macchina difensiva perfetta, fissata ai due cardini Dennis Johnson e Lonnie Shelton: “DJ”, che vincerà ancora in futuro ai Celtics con Larry Bird, è forse una delle guardie più complete di tutti i tempi, ma nella sua metà campo dà il meglio di sè…andate a vedere i vecchi filmati: mobilità eccezionale, piedi rapidissimi e intelligenza superiore, sembra prevedere con due secondi di anticipo quello che succederà. Shelton ha meno classe, è un ala grande abbastanza sottodimensionata, non un gran realizzatore, solo un buon rimbalzista, ma è un duro, un “enforcer”, il poliziotto d’area che puoi superare una volta sulla linea di fondo, ma quasi mai la seconda, una presenza continua ed asfissiante in grado di mettere la museruola anche all’attaccante più versatile e talentuoso. Il leader offensivo, invece, è l’altro “piccolo”, Gus Williams, “The Wizard” (e già dopo il soprannome potremmo evitare ogni ulteriore commento). Può perdere un passo in marcatura, ma dall’altra parte, ragazzi, è un numero uno (e non parliamo della sua canotta, che, comunque, porta in effetti il numero 1). In posizione di centro giostra l'”anomalo” Jack Wayne Sikma, 211 centimetri ma mano da point guard: tiratore di liberi eccellente (roba da 84% in carriera, non noccioline), con il suo ampio range di tiro garantisce ulteriore imprevedibilità ad una squadra che, altrimenti, avrebbe un numero di soluzioni limitate vicino al canestro avversario. E’ anche un notevole passatore ed ottimo rimbalzista.

      Il reparto guardie è ulteriormente impreziosito dall’ estroso “Downtown” Fred Brown, uno che, fosse nato 4 decadi dopo, con il basket tutto tiro da tre dei giorni nostri avrebbe giocato ben più di un All Star Game. Completano le rotazioni “che contano” l’ala piccola titolare John Johnson, comprimario sì, ma eccellente visione di gioco e il vecchio Paul Silas, quindici anni di esperienza e già bi-campione NBA con i Celtics di Havlicek, Cowens e White.

      La regular season fila dritta, 52 vittorie che valgono il primo posto ad Ovest, ma non il primo posto assoluto, perchè ad est del Mississippi i campioni in carica di Washington fanno meglio, portandone a casa 54. Vorrà dire che in caso di rivincita, questa volta, la “bella” si giocherà nella capitale. Ai playoffs il primo avversario designato sono i Los Angeles Lakers che, in accordo con le regole dell’epoca, hanno già affrontato un turno, dato che le classificate dalla 3 alla 6 in ogni conference sono costrette ad un preliminare al meglio delle tre partite. I Lakers si stanno preparando per diventare la grande squadra che dominerà insieme a Boston il periodo a venire, però manca ancora un Magic all’appello. Cè Jabbar, ma i Sonics la portano a casa per 4-1 con un solo brivido, quando, dal 2-0 rischiano di trovarsi sul 2-2 e solo un monumentale Gus Williams riesce a rintuzzare l’affondo giallo/viola portando Seattle alla vittoria per 117-115, senza dimenticare “Downtown” Brown, 12 punti dalla panchina in 15 minuti con 5/9 al tiro. Si chiude sul 4-1, ma non c’è tempo per festeggiare, perchè bisogna pensare ai Phoenix Suns di Paul Westphal, all’apice della sua vena realizzativa, di Walter Davis, Alvan Adams e Truck Robinson, che hanno inaspettatamente disposto con facilità (4-1) del seed numero 2 ad ovest, i Kansas City Kings. Quella Finale di Conference è una battaglia vera, che ad un certo punto sembra persa, quando non solo i Suns impattano sul 2-2 dallo 0-2 sfruttando il fattore campo, ma espugnano addirittura il Kingdome con un 99-93 esterno aggiudicandosi un match point da giocare in casa. Gara-6 è una partita per cuori saldi: i Sonics arrivano all’intervallo lungo con 5 di vantaggio (55-50), ma Phoenix recupera, passa avanti nel terzo e mantiene 6 lunghezze a metà del quarto periodo. Lenny Wilkens ha un’idea e cambia la marcatura di Walter Davis, talentuosa ala piccola che sta facendo ammattire John Johnson. Lonnie Shelton, il “cagnaccio” Lonnie Shelton, se ne prende cura da par suo limitandolo in maniera decisiva. Seattle sbuffa e suda, ma ricuce lo svantaggio fino a rimettere la testa avanti a 52 secondi dalla conclusione, grazie al jumper del “mago” Gus Williams. E’ il 106-105, ed è anche il risultato finale perchè ogni altro tentativo va ad infrangersi sulle rispettive difese. Passata la grande paura, Gara-7 è giallo/verde, con i tre moschettieri Sikma, Williams e Johnson (Dennis) che mettono a segno 87 dei 114 punti totali, lasciando gli avversari a 110.

      La finale, nemmeno a dirlo, vede di nuovo i Sonics giocarsela con Washington, nella rivincita del 1978: coach Dick Motta può contare più o meno esattamente sullo stesso roster dell’anno precedente e su una delle frontline più forti della storia, composta da Elvin Hayes e Wes Unseld, entrambi fuoriclasse, il che è già parecchio ma non è l’unico problema: il fatto è che i due si incastrano perfettamente come i pezzi di un puzzle…attaccante eccellente il primo, difensore eccellente il secondo; più talentuoso il primo, rocciosissimo il secondo. Certo, hanno 33 e 32 anni, ma sono ancora dannatemante temibili e proprio Unseld, nell’ultimo incrocio tra le due squadre, è stato MVP delle finals. Inoltre, nello spot di ala piccola i Bullets possono schierare il forte Bob Dandridge, che se la dovrà vedere con quello che è l’anello debole della catena-Sonics, John Johnson. Ci si aspetta una battaglia ed in effetti Gara-1 a Washington va ai padroni di casa con un combattuto 99-97, conquistato dopo una rimonta da -18 di Seattle e chiuso solo grazie a due tiri liberi ad un secondo dalla sirena, realizzati da Larry Wright, piccola point guard di riserva che diventerà una superstar in Italia, portando Roma sul tetto d’Europa nel 1984. Ci si aspetta una battaglia, dicevamo, ma non sarà così, perchè i ragazzi di Wilkens non sbagliano più un colpo: ne vincono 4 in fila conquistando il titolo in casa dei Bullets e ripagando gli avversari con la stessa moneta che avevano ricevuto 12 mesi prima: Gus Williams, che non è MVP delle finals (il riconoscimento va a Dennis Johnson), ma gioca una serie spettacolare, chiude il conto con due tiri liberi a 12 secondi dalla fine per il 97-93. Al rientro dei campioni ci sono 30000 tifosi ad aspettare il trofeo all’aeroporto e altri 250000 partecipano alla rituale sfilata per le vie della città.

      Uno spettacolo che non si ripeterà più, anche se negli anni ’90 prenderà vita un’altra versione fortissima dei Supersonics, che raggiungerà ancora la finale NBA, purtroppo con la somma sfortuna di trovare sulla sua strada gli imbattibili Bulls di Michael Jordan. Il glorioso Kingsdome verrà demolito nel 2000, mentre nel 2008 sarà la stessa franchigia a sparire, trasferita ad Oklahoma City. Il 1 Giugno del 1979 rimane dunque una data irripetuta e, forse, tristemente irripetibile per la Seattle che ama il basket.

      Tags: Angelo MerendiBoston CelticsDennis JohnsonElvin HayesFred BrownGus WilliamsJack SikmaJohn JohnsonLonnie SheltonLos Angeles LakersPhoenix SunsSeattle SuperSonicsWashington BulletsWes Unseld
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