
“Con Michael Jordan in squadra non si vincerà mai niente”.
Nell’estate del 1988, trent’anni prima che lo stesso discorso venisse riproposto per James Harden, nell’ambiente NBA c’era un forte scetticismo sul fatto che l’MVP e il miglior realizzatore (nonché miglior difensore, nel primo caso) della lega potesse condurre i compagni al titolo. Il numero 23 macinava punti e record, ma la sua naturale tendenza a dominare il gioco, lasciando le briciole a tutti gli altri, si stava dimostrando deleteria per le ambizioni dei Bulls. Nei primi tre playoff con Jordan in campo, Chicago aveva il poco onorevole record di una vittoria e nove sconfitte. Nel 1988 superò finalmente il primo turno, ma i Detroit Pistons targati ‘Bad Boys’ sbarrarono la strada, seminando una volta per tutte il dubbio fra gli addetti ai lavori.
Dall’altra parte degli Stati Uniti, Donald Sterling cercava disperatamente di rendere rilevanti i suoi Clippers. Quattro anni prima aveva spostato la franchigia da San Diego a Los Angeles, e da quel momento aveva vissuto all’ombra dei grandi Lakers. Per togliere un po’ di luce allo ‘Showtime’ di Pat Riley e Magic Johnson, ai Clippers serviva una stella. E a Chicago ce n’era una che stava cominciando a brillare più delle altre.
Non era la prima volta che i Clippers manifestavano interesse nei confronti di Michael Jordan. Stando al Chicago Tribune, nel 1984 i Chicago Bulls erano a caccia di un lungo, per il quale sarebbero stati disposti a cedere la terza scelta al draft. Fecero un tentativo con i Seattle SuperSonics per Jack Sikma, reduce dal suo sesto All-Star Game, poi si rivolsero a Sterling. L’obiettivo era l’ala grande Terry Cummings, nativa di Chicago e seconda scelta assoluta nel 1982. Aveva chiuso le prime due stagioni da professionista a oltre 23 punti e 10 rimbalzi di media, e qualche mese dopo sarebbe diventato un All-Star. Sterling chiese la terza scelta fra le contropartite, e le dirigenze intavolarono un’operazione a tre con i Dallas Mavericks per far quadrare i conti. L’affare sfumò, Cummings venne ceduto ai Milwaukee Bucks e Jordan fu selezionato dai Bulls. La leggenda ebbe inizio.
In quel 1988, però, Chicago sembrava finita su un binario morto. Quando Sterling chiamò, Jerry Reinsdorf drizzò bene le orecchie. Come scrive Sam Smith nel famigerato The Jordan Rules, i Clippers offrirono una combinazione di tre giocatori (a totale discrezione dei Bulls) e due scelte future in cambio di ‘Air’ Jordan. La parte interessante della proposta non è legata ai tre giocatori, che nel migliore dei casi sarebbero stati Michael Cage, Benoit Benjamin e il futuro allenatore Mike Woodson, bensì alle scelte.
L.A. aveva i diritti sulla prima e sulla sesta chiamata, che avrebbe poi speso per Danny Manning ed Hersey Hawkins. Stando a Smith, Reinsdorf e il general manager Jerry Krause avrebbero invece scelto il centro Rik Smits e la guardia Mitch Richmond, o al limite il playmaker Rod Strickland. Nei piani di Krause ci sarebbe stata anche un’altra operazione: cedere uno tra Charles Oakley (poi scambiato con i New York Knicks) e Horace Grant ai Phoenix Suns per arrivare alla point guard Kevin Johnson, pupillo del GM dei Bulls.
Settima scelta dei Cleveland Cavaliers al draft 1987, KJ non aveva brillato particolarmente nella sua stagione da rookie, chiusa a 9.2 punti e 5.5 assist di media. A febbraio, i Cavs lo avevano spedito in Arizona in cambio di Mark West, Tyrone Corbin e una prima scelta. Ai Suns, Johson sarebbe diventato un All-Star.
Se il progetto fosse andato a buon fine, i Bulls si sarebbero trovati con un quintetto formato da Kevin Johnson, Mitch Richmond, Scottie Pippen, Horace Grant e Rik Smits, uno starting five da 18 All-Star Game in carriera, ma avrebbero perso la più grande macchina da soldi nella storia dello sport.
Fu proprio l’aspetto economico uno dei principali motivi per cui la trade non andò in porto, nonostante le pressioni di Krause e di coach Doug Collins. Magari Jordan non avrebbe condotto la squadra al titolo, ma di sicuro avrebbe portato gli spettatori al Chicago Stadium e garantito alla franchigia popolarità ed esposizione mediatica. Oltretutto, Reinsdorf era alle prese con la questione-White Sox. La celebre squadra di baseball, di sua proprietà, sembrava in procinto di trasferirsi a St. Petersburg, in Florida. Sarebbe passato qualche mese, infatti, prima che lo stato dell’Illinois approvasse i piani per la costruzione di un nuovo stadio. Portare via da Chicago Michael Jordan e i White Sox avrebbe messo una taglia sulla testa di Reinsdorf, che infine rifiutò le avances di Sterling.
Jordan ci tenne comunque a ‘ringraziare’ i Clippers. La sua prima apparizione stagionale alla Los Angeles Memorial Sports Arena fu quasi ‘modesta’ per i suoi standard: 26 punti, 12 rimbalzi e 7 assist, con i Bulls che tornarono a casa sconfitti. Molto meglio il ‘regalo di benvenuto’ offerto da MJ a Chicago: tripla-doppia da 41 punti, 10 rimbalzi e 11 assist, condita da 6 recuperi e dalla vittoria. Mentre Sterling assisteva all’ennesima stagione mediocre dei suoi, Jordan e compagni si avviavano verso una nuova sconfitta contro i Bad Boys, stavolta in finale di Conference. L’estate seguente, il posto di Collins fu assegnato all’assistente Phil Jackson. I gloriosi Anni ’90 stavano per cominciare.