Anthony cammina a centrocampo, si ferma, guarda il canestro: è dannatamente alto per lui. Oddio, è dannatamente alto per chiunque, ma per lui un po’ di più.
Parte lento, ripete a memoria il movimento che ha provato decine di volte: un passo dal pitturato, lancia la palla a terra, con forza, la forza giusta, non poca, non troppa, abbastanza perché, dopo aver rimbalzato sul parquet, finisca la sua parabola sul tabellone, una spanna sopra il ferro. Anthony la segue, prende lo slancio, salta, la sua mano è troppo piccola per afferrarla, ma con un tempismo perfetto la raggiunge e la scaraventa nella retina di destro.
Il pubblico, il suo pubblico, è in visibilio, quella è la città dove è nato, sugli spalti i genitori applaudono commossi. I giudici gli tributano il punteggio massimo, 50. Ora la pressione è tutta sul suo grande avversario, Dominique Wilkins, “The Human Highlight film”, un gigante del basket che Anthony conosce bene, visto che i due sono compagni di squadra agli Atlanta Hawks. ‘Nique parte sulla linea laterale, stacca, schiaccia in maniera competente, ma da subito il suo gesto non sembra qualcosa di memorabile…riesce a spuntare “solo” un 48.
Anthony alza le braccia al cielo, è il campione per quella sera, il campione dello Slam Dunk Contest. Anthony ha un cognome, Webb, ed anche un soprannome, “Spud”, un nomignolo affettuoso che negli USA viene affibbiato ai bambini piccoli… e lui è piccolo, ma piccolo davvero. 170 centimetri sono un’altezza sufficiente se vuoi fare il ragioniere, ma se ti piace il basket e se inizi a muovere i primi passi nello sport a metà degli anni ’70, quando il tiro da tre punti non esiste e non puoi “venderti” nemmeno come specialista, sono un problema dannatamente grosso.
Eppure, quell’8 febbraio del 1986, a Dallas, “Spud” ha scritto la storia e, nel contempo, è diventato un simbolo di come, nello sport e nella vita, non ci sia nulla di impossibile. Deve in buona parte a quella magica serata la sua fama; è grazie a quella serata se, ancora oggi, è richiestissimo per tenere discorsi motivazionali ai dipendenti di molte società statunitensi. Diventa celeberrimo tra gli appassionati, perché ormai la NBA, dopo la pesante crisi di fine anni ’70, è diventata un fenomeno globale: le partite sono trasmesse in tutto il mondo, ovviamente anche in Italia (gli ultraquarantenni ricorderanno le storiche telecronache di Dan Peterson che raccontava delle sfide da Larry e Magic). I talenti spuntano come funghi, basti pensare che l’All-Star game di quell’anno vede ad Est Isaiah Thomas, Moses Malone, Larry Bird, Julius Erving, Sidney Moncrief, Robert Parish, Kevin McHale, Dominique Wilkins (ci sarebbero anche Patrick Ewing e Michael Jordan, ma sono infortunati); ad ovest Kareem Abdul-Jabbar, James Worthy, Magic Johnson, Alex English, Hakeem Olajuwon, Artis Gilmore… in mezzo a “cotanto senno”, sta a pieno diritto anche Anthony “Spud” Webb, 22 anni, ad oggi il giocatore più basso ad aver vinto lo Slam Dunk Contest, la più spettacolare gara del weekend delle stelle.
Dal Texas all’Italia, passando per esperienze tra East e West Coast
Nato a Dallas il 13 Luglio del 1963 in una casa di tre stanze da condividere con papà, mamma e 5 fratelli, il ragazzo ama lo sport e il basket in particolare, è velocissimo e salta come un grillo (schiaccia per la prima volta quando è alto un metro e sessanta), il che gli basta per entrare nella rappresentativa della sua High School,la “Wilmer-Hutchins”, ma non per guadagnarsi spazio. Quando gli viene concesso (solo perché due compagni sono assenti) segna 22 punti in una partita e non esce più di squadra.
Le stesse difficoltà le incontra all’università: nessuno gli regala una chance (troppo basso, ovviamente); riesce ad entrare in un piccolo college texano, il Midland, dove trascina i compagni alla conquista del “Junior College National Title” nel 1982. In finale Webb segna 36 punti, il che gli vale un articolo su Sports Illustrated. A questo punto anche i “grandi” si accorgono della sua esistenza e riceve un’offerta da North Carolina State dove milita per due anni con medie di 10.4 punti e 5.7 assist a partita. E’ il momento di fare il grande salto, anche se le possibilità di essere scelto in NBA sono abbastanza basse. Arriva all’obbiettivo per vie traverse, ma ormai è abituato: scelto dai Pistons al quarto giro del Draft 1985 e poi tagliato, il suo futuro sembra dover essere in Europa, ma gli Atlanta Hawks gli danno una possibilità… e per una volta è anche fortunato oltre che bravo: gli Hawks sono una squadra competitiva, che può contare su una delle stelle indiscusse della NBA, Dominique Wilkins, e su altri ottimi elementi come “Doc” Rivers, Randy Wittman e Kevin Willis. “Spud” fa il rincalzo di Rivers e non sfigura, anche se il suo utilizzo è limitato: 15.6 minuti di media, 7.8 punti e 4.3 assist.
Coach Mike Fratello lo sfrutta per dare una scarica di adrenalina alla second unit: il ragazzo è rapido, entra in partita con prontezza e penetra senza paura per sfruttare la sua clamorosa elevazione (il suo “stacco”, misurato, è di 110 centimetri). Inoltre, quando subisce fallo è chirurgico nella trasformazione dei liberi. Insomma, dimostra di poter stare in NBA, alla faccia dei suoi 170 centimetri e 60 chilogrammi.
Rimane ad Atlanta per 6 anni, fino al 1991 e nell’ultimo campionato parte quasi sistematicamente in quintetto. Ventottenne, nel 1991 passa a Sacramento ed in California, complice una squadra non troppo competitiva (il periodo d’oro dei Kings, con Webber, Divac e Stojakovic, sarebbe arrivato qualche anno dopo), mette insieme i suoi numeri migliori: sistematicamente in doppia cifra, raggiunge i 16 punti ad allacciata di scarpe nel 1991/92, quando smazza anche 6.7 assist. Nel 1994/95 risulta anche il migliore della lega ai liberi, con il 93.4% di realizzazioni. E’ anche il suo canto del cigno, visto che, trentunenne e con le armi migliori (esplosività e velocità) che fisiologicamente vengono meno, imbocca decisamente il viale del tramonto. Ritorna ad Atlanta, poi a stagione in corso viene ceduto ai Timberwolves, poi ancora tenta una breve e sfortunata avventura in Italia, a Verona: la parentesi dura solo un paio di mesi e termina tra infortuni e problemi di ambientamento.
Torna negli USA, ad Orlando, solo per giocare una trentina di minuti in 4 partite. Chiude la sua carriera dopo 12 stagioni, con 8072 punti segnati e 4342 assist. Non sarà ricordato come un campione, ma quella gara delle schiacciate del 1986 rimane una pietra miliare della storia della NBA, una delle prove che la volontà di un uomo può fare la differenza.
Oggi, “Spud” Webb compie 57 anni e merita i nostri auguri. Quelli di tutti coloro che sono troppo grassi, troppo bassi, troppo timidi, troppo… qualcosa per raggiungere il loro sogno.