Damian Lillard è uno di quei giocatori che mi ha impressionato sin dal primo momento in cui ha messo piede sui parquet della NBA.
Atletismo, energia e grinta da vendere, a cui si aggiunge il premio di Rookie Of The Year vinto all’unanimità nel 2013 provenendo da un college semi-sconosciuto come Weber State. Ricordiamo che, in un draft in cui la prima scelta fu tale Anthony Davis, Lillard fu pescato “solo” alla sesta chiamata, dopo Dion Waiters e Thomas Robinson (due che hanno avuto alterne fortune nella Lega).
Da subito uno dei volti della NBA
Lillard, nato a Oakland in California il 15 luglio 1990, ha raggiunto lo status di All-Star nel 2014 a New Orleans, in cui divenne anche il primo giocatore in assoluto a partecipare a tutte le cinque competizioni del fine settimana: Rising Star Challenge, Skills Challenge (primo al pari di Trey Burke), Slam Dunk Contest, Three Point Shootout e All-Star Game. Nello stesso anno arriva anche la prima postseason, trascinando i Blazers al secondo turno dopo quattordici anni con un 4-2 su degli Houston Rocket targati Harden e Howard: indimenticabile il canestro allo scadere a nove decimi dallo scadere.
Un finale simile si è verificato nell’aprile 2019, quando Portland ha cappottato gli Oklahoma City Thunder di Westbrook e George 4-1. Proprio nella decisiva gara-5 Lillard ha indossato i panni del supereroe, realizzando il record di franchigia ai playoffs (50 punti, a cui ha aggiunto 7 rimbalzi e 6 assist) e segnando il canestro della vittoria allo scadere in faccia al numero 13 avversario, non l’ultimo dei difensori…
Ah, in quell’occasione è diventato il primo giocatore della storia a firmare una prestazione da 50+ punti, 5+ rimbalzi, 5+ assist e 10+ triple realizzate ai playoffs.
Se si eccettua la stagione da rookie, Dame ha portato sempre la franchigia dell’Oregon ai playoffs, dove nella selvaggia Western Conference le speranze di avanzamento dei turni si sono spesso infrante contro la corazzata dei Warriors: nel 2016 alle semifinali (4-1), nel 2017 al primo round (4-0) e nel 2019 alle finali di Conference (4-0).
In questa stagione i Blazers si trovano a occupare la nona piazza con un record non entusiasmante di 29-37, complici le lunghe assenze di Nurkic, Collins (questi due pronti a tornare a giocare nella “bolla”) e Hood. Sono ancora però in corsa per la qualificazione ai playoffs e nelle partite di regular season fissate per la ripresa della stagione dovranno dare il massimo, visto che non esiste margine di errore.
Nel periodo precedente all’All-Star Game 2020 e al lockdown, Lillard ha trascinato la squadra ed è stato autore di prestazioni clamorose: prima il record personale e di franchigia di 61 punti, poi, non “sazio”, chiude le due gare successive a quota 47 e 50 (con 13 assist). Dal 21 gennaio al 12 febbraio tiene una media di quasi 40 punti ad allacciata di scarpe.
Protagonista anche fuori dal campo
Oltre a calcare i parquet, il numero 0 dal 2015 è anche un rapper, con il nome d’arte di Dame D.O.L.L.A. (Different On Levels the Lord Allows) e con all’attivo tre album, ultimo dei quali (Big D.O.L.L.A.) rilasciato quasi un anno fa.
Damian Lillard si contraddistingue per essere un uomo legato ai posti in cui è cresciuto, come dimostra il suo numero di maglia: lo zero fa infatti riferimento alla lettera “O”, l’iniziale di Oakland (luogo di nascita), Ogden (sede di Weber State) e dello stato dell’Oregon (di cui Portland è la città più grande).
A questi valori si aggiungono quelli della famiglia, dimostrando un grande legame con il figlio Damian Jr.. Famiglia che ha aiutato e sostenuto Dame durante i momenti difficili scaturiti in seguito alla morte del cugino Brandon, scomparso durante la pandemia.
Scetticismo per la “bolla” di Orlando
Sulla questione “bolla” si è dichiarato scettico e ha affermato che passerà molto tempo nella sua camera di hotel: “ho i miei passatempi, il laptop, la mia console… per il resto chiederò solo se è l’ora degli allenamenti e delle partite”.
Forse un modo per focalizzarsi solo sul gioco e niente più, pensando a ciò che sta accadendo nel resto del mondo e in particolare dell’America, ancora in piena crisi.
Chissà che non possa rivelarsi un propellente per una postseason da protagonista.